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1863 – 1870: Le terre vesuviane scoprono cosa intenda per “legalità” l’Italia dei Savoia

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di Carmine Cimmino da Rete due Sicilie
Alla fine del ’62 la borghesia napoletana d’ogni colore sostenne, attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, la necessità di una legislazione eccezionale contro il brigantaggio. Stanislao Mancini elaborò un progetto di legge che affidava a delegazioni provinciali di sicurezza pubblica poteri che non avevano avuto nemmeno le commissioni “statarie” dei Borbone. Il progetto non andò in porto, ma fu un importante segnale degli umori della borghesia napoletana, che infatti non batté ciglio quando il Governo – Spaventa era segretario generale agli Interni- chiuse, uno dopo l’altro, tutti i giornali dell’opposizione, schedò gli oppositori e li sottopose a severi controlli di polizia.

Mancini e Spaventa si proponevano di restaurare l’autorità civile conculcata dagli arbitrii del potere militare. Il generale Lamarmora, “il conquistatore”, aveva permesso ai suoi di adottare i provvedimenti di carcerazione senza prove così frequentemente da far rimpiangere a qualcuno la polizia borbonica, che era stata “più sobria” dei “Piemontesi” nel prolungare “sine titolo” la detenzione di imputati assolti e di rei che avevano scontato la pena, ma che a insindacabile giudizio delle forze dell’ordine restavano “in odore” di pericolosità. La confusione dei liberali napoletani non è dimostrata tanto dalla relazione della commissione d’inchiesta sul brigantaggio, che Massari lesse alla Camera nel maggio del ’63, quanto dal fatto che per mettere un argine al prepotere dell’esercito si giunse ad approvare la così detta legge Pica, che il Re promulgò il 15 agosto, e che costrinse De Sanctis a scrivere: ”noi non siamo un governo libero, perché da condizioni anormali siamo tirati sul pendio delle leggi eccezionali, perché nell’esecuzione delle leggi trascorriamo volentieri all’arbitrio…”.

La Provincia di Napoli non fu inserita tra quelle dichiarate in stato di brigantaggio e quindi sfuggì ai rigori degli articoli 1 e 2, che, consegnando i briganti al braccio di tribunali militari, o di parodie di essi, li destinavano quasi sempre alla pena capitale. Ma anche Napoli subì gli sconquassi provocati dall’art.5, che attribuiva al Governo “la facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi”, alle persone definite genericamente sospette, a cospiratori veri e anche a quelli solo folkloristici, ai massoni. E nella caccia a così numerosa selvaggina, sovente la polizia dell’ Italia liberale seguì le strade dell’iniquità e del ridicolo.

Nelle terre vesuviane la mano della Giunta Provinciale, sotto la guida maldestra degli amministratori locali, colpì con poca durezza, ma spesso alla cieca. A Castellammare furono individuati venti “oziosi,vagabondi e riconosciuti camorristi” da inviare al Forte di Ischia, e tra essi tre membri della famiglia Vanacore, accusati di essere, con Gioacchino Boccia, ”camorristi del porto”, Filippo Scelzo Purpessa, il palermitano Leonardo Valentino, Alfonso Spagnulo amico di De Simone “o’ lione”, il caposocietà Federico Stanzione. Il Sindaco di Boscoreale fece inviare a domicilio coatto i tre fratelli Castaldo “conniventi di malfattori”, mentre da Torre Annunziata partirono una decina “di manutengoli e di malfattori” tra i quali spiccavano Luigi De Simone lo Stuppo, Gaetano Sarcinelli l’Orefice,“camorrista delle acque di irrigazione” e il liquorista Giuseppe Liucci Camelo. Otto furono i coatti di Boscotrecase – due erano camorristi, Giacomo Paggi e Raffaele Cozzolino lo Incazzatore-, 7 quelli di Ottajano: Achille Ranieri, Luigi Allocca, Michele Ammendola detto” il commissario“, Saverio De Luca, Aniello Massa, Amodio Giugliano originario di Saviano, Luigi Annunziata.

La Giunta Provinciale non sentì il bisogno di delineare almeno un abbozzo della società malavitosa e del fenomeno dell’illegalità, prima di scrutinare gli elenchi dei sospetti e di adottare i provvedimenti. Ci furono pochi freni all’arbitrio, il potere dei sindaci fu eccessivo e gli evidenti contrasti tra autorità civili, carabinieri e polizia produssero guasti di ogni genere. Nel giugno del ’64 fu chiesto agli amministratori locali di esprimere il loro motivato parere su un’eventuale liberazione dei coatti. La minuta del testo delle osservazioni formulate dal Comune di Ottajano, nel tormento delle cancellature continue e irritate, dei pentimenti radicali, dei periodi abborracciati, rivela non tanto la fatica dello stile e il peso della difficile lingua italiana, quanto un animo ingombro di risentimento, privo di serenità, pronto a sfruttare l’iniquità della legge per occultare quella della politica locale. Insomma, la storia incominciava a ripetere certi suoi capitoli che sembrano ancora attuali.

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