Di Gianni Turco: Rubrica ” L’Alfiere”
L’interesse per i canti alfonsiani non si è spento con la crescita della distanza temporale dalla loro composizione. Anzi, ha fatto registrare, non solo una innegabile continuità di apprezzamento, ma ulteriormente una riproposizione nel corso del secolo ventesimo ed oltre. Tale da sollecitare viepiù un’attenzione, contestualmente, religiosa, musicale e storica. Aspetti che vi si saldano organicamente in unità, e che ne restituiscono una permanente freschezza di ispirazione e di effusione.
Il segreto del gradimento che si è prolungato lungo l’arco di ben oltre due secoli, particolarmente per i canti natalizi alfonsiani, palesa, probabilmente, la sua ragione più profonda in una considerazione del primo biografo di sant’Alfonso, il redentorista Antonio Maria Tannoia. Questi scrisse che Alfonso “predicava Cristo e non se stesso” .
La sua attività si esprime, infatti, non solo attraverso le missioni popolari e degli esercizi spirituali, ma anche nelle forme dei trattati di teologia morale e di spiritualità, negli scritti ascetici (anche a confutazione delle tesi giansenistiche) ed in quelli filosofici (in polemica con le tesi illuministiche), e non ultimi, nei canti spirituali, scritti e musicati (o comunque adattati) dal fondatore dei Redentoristi. Un impegno di apostolato, insomma, che spazia nei più diversi campi dell’esistenza umana – nel loro rilievo individuale e sociale – fino a quelli propri della musica e (verosimilmente) anche della pittura.
Se delle opere antilluministiche lo stesso Biografo (e confratello) ha commentato che valsero più di una missione popolare , ancor più si dovrà dire, quanto all’influsso delle canzoni spirituali, di quelle sul mistero del Natale, ma anche di quelle a tema mariano, eucaristico, ascetico nonché sul mistero della Passione.
Alfonso – che ebbe fin da giovanissimo una solida preparazione musicale – ben sapeva quanta influenza potevano esercitare i canti nell’alimentare lo spirito di fervore religioso, e nel comunicare, anche emotivamente, la sostanza delle verità di fede. Era pienamente persuaso dell’importanza della musica e del canto, soprattutto di quello di più vasta risonanza popolare, per la formazione o viceversa la deformazione di ciascuno. Donde la determinazione non solo a scrivere ed a comporre, ma anche a dare alle stampe i testi, affinché fossero conosciuti e ripresi .
Durante le missioni spesso venivano intonati i motivi musicali che egli aveva composto, e che talvolta suonava egli stesso per la comunità durante i momenti di ricreazione. I testi e le musiche avevano un andamento popolare e venivano appresi con facilità, andando a sostituire – era tra le intenzioni di Alfonso – canti profani, non raramente licenziosi. Ben lungi dall’artefatto virtuosismo come dal facile sentimentalismo, ma sensibile e capace sotto il profilo musicale, egli non cercava di stupire ma di comunicare, non mirava a lusingare l’udito ma a raggiungere l’interiorità. Come attesta Tannoia, «armonia, e non confusione; pausa, e non strapazzo ricercava nel canto. Quanto godeva di un canto sodo e divoto, altrettanto detestava nelle Chiese un canto non proprio, e teatrale» .
La musica alfonsiana, insomma, non è fine a se stessa, né risulta ipotecata dalle mode o in cerca di epidermici consensi. Piuttosto costituisce uno sviluppo intenzionale dell’apostolato ed un’effusione sincera della pietà, di notevole efficacia. Liguori, però, ha ben chiara la differenza tra la musica sacra, di impianto liturgico, e quella religiosa, devota e popolare. Questa è e resta extra-liturgica. Semmai predispone interiormente alla liturgia ma non si confonde affatto con i ritmi e le armonie che sono propri di questa.
L’unica musica sacra, tale da meritare di avere posto nelle celebrazioni liturgiche, per Alfonso, è solo quella gregoriana. A conferma di questa profonda consapevolezza può essere citato il fatto che, da vescovo di Sant’Agata dei Goti, egli proibì il canto “figurato” (che riecheggiava arie di opere liriche) nei monasteri, ribadendo ammesso nella liturgia esclusivamente il gregoriano.
I canti alfonsiani appartengono al linguaggio della tradizione musicale napoletana, ed in ispecie di quella religiosa, come si era venuta fissando nel corso del Settecento. Nondimeno l’intensità contemplativa che li caratterizza e la calda intensità espressiva, delle immagini evocate come delle note impiegate, li hanno resi pienamente universali.
Il Santo non ha mai stampato la musica delle sue “canzoncine” spirituali (anche se ha scritto certamente della musica), eppure essa è stata agevolmente memorizzabile, e, come tale è stata presto imparata dai suoi confratelli e dai numerosissimi fedeli. Per i canti proposti durante le missioni popolari utilizzava ed adattava spesso melodie preesistenti. Nel caso di Tu scendi dalle stelle, la melodia è molto simile a quella suonata ancora dopo secoli dagli zampognari abruzzesi, nelle novene dell’Immacolata e di Natale. Ciò nulla toglie alla “originalità tradizionale” dell’inventiva artistica che le connota; ed anzi, ne evidenzia ancor più il carattere di approdo di una civiltà insieme colta e fervida
Uno studioso redentorista, Paolo Saturno, ha scritto che tra le caratteristiche fondamentali dei canti alfonsiani vanno segnalate «l’uso costante […] di determinate misure di tempo soprattutto il 6/8, la particolare aderenza testo-musica, la sempre emergente castigatezza di una melodia essenziale restia ad ogni soverchia fioritura melismatica e la cristallina semplicità che tutto predomina» . Si tratta di elementi che traspaiono certamente, in modo tutto particolare, nei canti natalizi, e tra essi nei più famosi: la pastorale Quanno nascette ninno e l’andantino Tu scendi dalle stelle.
Quest’ultima, composta nel 1755, sembra evocare proprio le scene del presepe, e di quello napoletano in specie. La suggestione delle immagini – che pare richiamare l’intensità del teatro religioso (sviluppatosi particolarmente durante il Seicento) – fa tutt’uno con l’essenzialità delle parole e con la vibrazione affettiva della melodia. Il tutto è caratterizzato da una capacità evocativa, che si fa sentire in modo inconfondibile nel famosissimo poemetto pastorale in lingua napoletana (composto agli inizi dell’attività sacerdotale di Alfonso).
Questi canti natalizi propongono, nella sua essenzialità teologica e nelle sue implicazioni spirituali, la contemplazione del mistero dell’Incarnazione. Ma non in modo freddamente dottrinale, né in forma superficialmente sentimentale. Piuttosto con la capacità, al tempo stesso, di istruire e di commuovere, di rendere attenti e di fare partecipi. Quasi senza filtri, così da incontrare il protagonista del Mistero ed insieme da rendervisi affettivamente ed intimamente solidali. Il Natale è il mistero della potenza di Dio che assume tutta la debolezza della condizione umana, fino alla indigenza del Bambinello, deposto sul fieno ed esposto al freddo. L’unico Dio creatore dell’universo vagisce nella mangiatoia. Mentre non cessa per un istante di essere il Signore onnipotente, viene incontro agli uomini e li chiama ad accoglierlo.
In queste melodie nulla è banale, e niente è casuale. Esse sono elevate e popolari, seriamente toccanti ed agevolmente riproducibili, senza alcuna dicotomia. Anzi, il primo carattere si trasfonde nel secondo, ed il secondo amplifica il primo, secondo la sintesi propria della tradizionalità, nella sua accezione più alta (ovvero nel suo significato assiologico). Di modo che la finezza del tratto non si confonde con la leziosità, e la comune accessibilità nulla ha della volgarità. La profondità della dottrina si coniuga con la semplicità dei versi, e con l’orecchiabilità della musica.
Come ognuno dei personaggi del presepe napoletano, ciascuno diviene partecipe dell’evento più importante della storia dell’umanità. Ogni ascoltatore è fatto compartecipe del rilievo cosmico ed escatologico del Natale. Ciascuno è chiamato a gioire con l’universo intero, con la natura e con la storia tutta. Donde l’immagine poetica di una nuova vita che risveglia e fa germogliare anche ciò che era freddo e secco: «pe ‘nsì o ffieno sicco e tuosto che fuje puosto – sott’a Te, se ‘nfigliulette, e de frunnelle e sciure se vestette» Giacché attraverso l’Incarnazione, la grazia, nel suo epilogo finale, renderà possibile – secondo la profezia – l’amicizia della pecora e del leone, «la pecora pasceva co’ lione […] e co lo lupo ‘n pace o pecoriello».
Chi ascolta i canti alfonsiani è posto davanti alla grotta di Betlemme con l’intelletto e con l’affetto, ove la mente e il cuore vibrano in profonda sintonia. Soprattutto, è sollecitato a pensare che il mistero del Dio-Bambino – «Ninno bello» – si compie proprio per lui. Non per un’umanità indistinta, né per un uomo astratto. Ma per ognuno, concretamente e immediatamente. Per il quale, anche attraverso il vagito del Bambinello, come mediante ogni suo respiro ed ogni suo gemito, il Verbo incarnato sta compiendo la Redenzione. Una scena ed un monito che non possono e non vogliono lasciare indifferenti, anzi rispetto alla quale l’indifferenza si muta in colpa.
In definitiva “Tu scendi dalle stelle” e “Quanno nascette Ninno” presentano l’amore di Dio che è alla radice del Natale, come un intensissimo richiamo ad amare l’unico vero Dio. Là dove ciò che sollecita l’amore è proprio l’amore. Anzi, dove ciascuno è chiamato, con l’efficacia della tenerezza, ad interloquire familiarmente (Alfonso insisteva sulla necessità di predicare con linguaggio “alla familiare”) con il Salvatore.
NOTE:
1) Al riguardo, si rinvia alla biografia frutto della conoscenza personale dell’Autore, nonché dell’ascolto di testimoni diretti e di un’ampia documentazione coeva: A. M. TANNOIA, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de’ Goti e fondatore della Congregazione de’ preti missionarii del SS. Redentore, tomo I libro II, presso Vincenzo Orsini, Napoli 1798, p. 198.
2) Cfr. IDEM, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de’ Goti e fondatore della Congregazione de’ preti missionarii del SS. Redentore, tomo II libro III, presso Vincenzo Orsini, Napoli 1800, pp. 189-190 e 265-266.
3) Tannoia testimonia che Alfonso «avendo conosciuto il gran male, che dalle laide canzoni risultava a’ giovinetti, e zitelle, ed il gran bene, che operavano le sue, poste nella bocca di questi, volendo spargerle da per tutto, raccolte in un volume le diede alle stampe» (ibid., tomo I libro II, cit., p. 185).
4) Ibid., tomo II libro III, cit., p. 182.
5) P. SATURNO, La tradizione musicale alfonsiana, in Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo. Atti del Convegno internazionale per il Bicentenario della morte del santo (1787-1987), Napoli, S. Agata dei Goti, Salerno, Pagani 15-19 maggio 1988, a cura di P. Giannantonio, vol. II, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1990, p. 597.