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I guerrieri della tradizione

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Pietro Golia (Rubrica di Sud e Civiltà)

I guerrieri della tradizione
Chiamiamo Ribelle chi nel corso degli eventi, si è trovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti – forse di tutti. Perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata.

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Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo. Ernst Jünger
dal Trattato del Ribelle (1990)

Li definirono briganti, ma erano guerriglieri. Li volevano calpestare e si ribellarono. L’epilogo della loro esistenza fu tragico. A loro fu negata la patria come senso di appartenenza, come comunità di fede e di destino. La loro era una cultura altra, interdetta e condannata al silenzio.

Ciononostante i briganti riuscirono a calamitare masse inquiete, riottose e diseredate di fronte a tutte le ondate di giacobinismo militare e borghese, dei nuovi poteri locali antireligiosi e massonici, repressivi e sfruttatori. Gli invasori e i potenti galantuomini non ebbero vita facile, dovettero fronteggiare una guerra di guerriglia sanguinosa. I briganti non seguivano le grandi armate di eserciti stranieri ed invasori sul punto di vincere la guerra, come altri irregolari di epoca a noi più vicina.

I briganti erano l’avanguardia armata, la voce profonda del proprio popolo, che non va confuso con l’insieme della popolazione.

Consapevoli di ciò non abbassarono lo sguardo, non piegarono la testa, non si rassegnarono. Decisero di resistere, avvertendo a volte, e sapendo, che il loro destino era già scritto. Ma il brigante, il ribelle, ha negli occhi il sole accecante della libertà. E questo sole gli impedisce di vedere l’immediato, il conveniente. La sua è una sfida che l’antropologia dell’utile definirebbe disperata. Ma la dignità non ammette i calcoli dell’opportunità e non rispetta il vento della storia.

Scriverà Eric J. Hobsbawm nel 1971: “Il brigantaggio diventa il simbolo, anzi la punta avanzata di resistenza dell’intero ordine tradizionale contro le forze che cercano di scalzarlo e di distruggerlo. Una rivoluzione sociale non è meno rivoluzionaria perché si schiera a favore della reazione contro il progresso. I briganti insorgevano per l’ideale della società del buon tempo antico, simbolizzata naturalmente dall’ideale del Trono e dell’Altare. In politica i banditi tendono a essere dei tradizionalisti rivoluzionari”.

E Hobsbawm senza dubbio dà una lettura della tradizione come rivoluzione che riecheggia parole e convinzioni di ben diversa provenienza.

Quella del brigante era anche una rivoluzione sociale che aveva poco a che vedere con un progetto conservatore, di pura e semplice nostalgia con il passato. “La tradizione non è il passato – ha osservato Alain de Benoist –. La tradizione ha a che vedere con il passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente o col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce a ciò che è antico, a ciò che è alle nostre spalle: bensì a ciò che è permanente, a ciò che ci sta ‘dentro’. Non è il contrario dell’innovazione, ma il quadro entro cui debbono compiersi le innovazioni per essere significative e durevoli”.

I briganti non guardavano all’indietro, ma a quanto è eterno, alla fede, alla religiosità, alle consuetudini, alle identità, alle culture oggi definite subalterne, a tutto ciò che è perenne. Certo non facevano parte di un club giacobino, né partecipavano a sedute di autocoscienza assembleare. La loro resistenza nasceva dal rifiuto dell’arroganza, della violenza supponente, della brutalità dei potenti, della spietatezza ottusa dei colonizzatori.

Anche William Wallace, Braveheart, era un brigante, un cuore impavido, isolato, spogliato della sua patria, consegnato all’annientamento. È il destino questo di chi insorge per la buona causa, qualunque possa essere l’epilogo. Sulle loro gesta viene steso il manto gelido del silenzio, dell’interdetto vendicativo, della negazione etica. Nessun diritto, nessuna ragione. Il brigante ripugna a quanti coltivano l’etica del vincitore, del vincitore a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo.

Nella voce del brigante risuona la memoria profonda di popoli condannati al silenzio e proprio per questo leggendari. Certo quei ribelli ignoranti che in tutte le epoche hanno osato irridere i giacobini, i preti progressisti, i ricchi borghesi, i milionisti sono come una sfida intollerabile all’ordine costituito della censura e della menzogna. I padroni del pensiero e la classe proprietaria delle verità accademiche hanno già pronunciato il loro definitivo anatema. Anche se cercano di mistificare tra ambiguità e minimalismi recuperando pure in chiave classista la leggenda del brigantaggio. Che non fu solo rivolta dei senza terra per una rivoluzione agraria, ma fu ribellione di popolo per restaurare i valori perenni della tradizione. La stessa storiografia legittimista non riesce a comprendere del tutto il fenomeno del brigantaggio. Diffida della mobilitazione armata delle masse, della rivendicazione costante che queste fanno della propria autonomia, del populismo del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria; ha orrore della violenza tragica e a volte irridente di questi contadini in rivolta. Da qui nasce l’isolamento del brigantaggio: ai giacobini il brigante ripugna, ai legittimisti ispira diffidenza e paura. Ecco perché l’Italia poté affondare la lama delle leggi speciali nella sabbia degli interessi di classe, dei conservatorismi e dei trasformismi di ceto, della cultura predatoria degli invasori sopraffattori.

Con lo stato d’assedio del 1862 e con la legge Pica del 1863 alla dittatura garibaldina, velleitaria e caotica, si sostituisce la dittatura della borghesia liberale che reprime le identità, le diversità e tutto ciò che sa di insubordinazione radicale e permanente. Il brigante diventa una minoranza etnica e criminale da annientare con il ferro e con il fuoco, soprattutto con l’arma del pentitismo e della corruzione. Violenza militare, repressione poliziesca e corruzione diventano un tutt’uno.

A uomini che come William Wallace, Braveheart, non avevano voluto vendere l’onore delle loro mogli o delle giovani figlie a signorotti prepotenti, viene negato ogni diritto. Contro i briganti e le popolazioni meridionali si esercita un razzismo etnico ben delineato dalle parole di uno dei tanti, il capitano piemontese del Corpo di Stato Maggiore Generale, conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, il quale scrive nel 1863: “Siamo fra una popolazione, che sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, ai Noueri, ai Dinkas, ai Malesi di Pulo-Penango. Di ladri formicola questo bel paese; sono tanti, quanti sono gli abitanti senza eccezione. Il brigantaggio è per ogni dove in queste province; esso si trova in tutti gli ambienti e su tutti i gradini della società; egli è nella natura e negli istinti di questi popoli”.

Erano queste le voci dei nuovi conquistatori-liberatori-invasori che giungevano dalle colonie del Sud, che dovevano essere normalizzate con la complicità silenziosa di quanti, terrorizzati, avevano perso la voce e la dignità di uomini liberi.

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