PARTE 1
Di Edoardo Vitale per la Rubrica “L’Alfiere”
Dura, la vita dello storico. Con le tracce di esistenze umane che raccoglie, abbozza figure più o meno verosimili, separandole o accostandole fino a formare un mosaico coerente. Il colore che dà a ciascuno di quei tasselli diventa poi una sentenza inesorabile che magari riassume in una sola nota cromatica il significato di una vita. E se il risultato non soddisfa, la tentazione di forzare le tessere nel mosaico con una limatina o addirittura di aggiungerne o farne sparire qualcuna è forte.
Può, così, accadere che esistenze umane, nella loro dignità e complessità, vengano ridotte a caricature. Ci sono scrittori manichei che disegnano un mondo bicolore diviso fra angeli e demoni, in cui i nobili spiriti stanno tutti da una parte, mentre l’altro lato della strada brulica di sordide creature scarsamente umane. Di solito c’è odio ideologico dietro queste semplificazioni. Traspare dalla terminologia: da un lato, crudeltà, ferocia, ignominia, grettezza, corruzione, superstizione, spergiuro, infamia, vigliaccheria, barbarie, dall’altro, generosità, apostolato, martirio, umanità, fede, lealtà, onestà, eroismo, civiltà.
Sembra incredibile, ma ancora oggi certi stucchevoli romanzi d’appendice vengano spacciati per verità indiscutibili, senza rispetto per gli esseri umani ridotti a marionette di un noioso teatrino.
Lo si vede dai libri di scuola, le cui pagine dedicate al cosiddetto risorgimento sono per lo più roboanti sinfonie celebrative in cui il suono prevalente è quello, assordante, dei tromboni. Solo da pochi anni si può leggere qualche ricostruzione scolastica meno faziosa, ma del resto occorre pur concedere qualcosa a una presa di coscienza dell’opinione pubblica, che porta spesso i professori a dover fronteggiare alunni coraggiosi, pronti a chiedere loro conto delle sciocchezze che insegnavano.
Chi, come me, gira tutto il Mezzogiorno per far aprire gli occhi alla gente almeno sulle menzogne più grosse, riscontra differenze evidenti da una zona all’altra. In provincia di Napoli, ad esempio, specie nella zona vesuviana, i pregiudizi sono meno accentuati e le tesi storiche anticonformiste incontrano un diffuso e immediato favore, anche fra i giovani. Le istituzioni, anche scolastiche, sono più aperte all’ascolto e spesso i nostri interventi generano entusiasmo.
Nella parte più meridionale del Cilento, invece, la musica cambia. Con qualche lodevole eccezione, arcigne conventicole di storici locali considerano quasi una provocazione che si vada a contestare la versione ufficiale “a casa loro”. In quei luoghi, infatti, alligna ancora l’erbaccia altrove rara del conformismo di stampo ottocentesco. Intorno al nume tutelare, Carlo Pisacane, fiorisce un artigianato storico degno del “realismo socialista” di epoca staliniana, con pennelli amorevoli che dipingono ritratti simili a immaginette sacre. Panzane sesquipedali vengono sospinte in cielo come fragili mongolfiere. L’industria delle celebrazioni si appoggia a onnipresenti vestali, che magari si misurano in simpatici battibecchi da strapaese per stabilire se l’Eroe sia sbarcato cento metri più a sud o più a nord, ma che non si appassionano troppo all’indagine sui finanziatori dell’impresa o sui legami internazionali dell’ardimentoso rivoluzionario. Tutti, comunque, regolarmente si ricompattano per lamentarsi dell’insufficiente rilievo che la storiografia ufficiale riserba alle molteplici rivolte e congiure cilentane.
Sta di fatto che il confronto è iniziato. E ne potranno scaturire solo conseguenze positive, perché chi sostiene una tesi in buona fede non può temere di metterla alla prova.
Facciamola, allora, qualche nostra considerazione su questo “padre del Risorgimento”.
Nasce a Napoli il 22 agosto 1818 dal duca Gennaro Pisacane di San Giovanni e da Nicoletta Basile De Luna. Come molti altri rampolli di famiglie aristocratiche, intraprende la carriera militare, prima alla Scuola militare di San Giovanni a Carbonara, poi all’Accademia della Nunziatella, dove era allievo anche il fratello maggiore Filippo, che raggiunse il grado di tenente del reggimento degli Ussari e che rimase sempre fedele al re legittimo anche dopo l’invasione delle Due Sicilie. A 21 anni non ancora compiuti Carlo è nominato alfiere del Reggimento Fanteria di Linea “Borbone”. Tutto sembra far presagire una brillante carriera militare; ma occorre mettere nel conto la sua indole inquieta.
È da supporre che goda di notevole considerazione, se viene chiamato a collaborare alla costruzione della ferrovia Napoli-Caserta; non assiste, però, alla sua inaugurazione perché, a seguito di contrasti con un capitano, è trasferito a Civitella del Tronto, “residenza di frontiera”. Qui allaccia una relazione con una donna sposata, Gaetanella Michilli, che la tradizione orale descrive come di bellezza non comune. Preziose informazioni sui fatti si rinvengono nell’opera di Carino Gambacorta, Storia di Civitella del Tronto, Edigrafital, Teramo, 2° ediz., 1992. Il marito Emidio Fiorentini, avendo sospettato la cosa, li sorprende nella notte del 4 febbraio 1843 e ferisce la moglie, soccorsa subito dal fabbro Luigi Curzi, che provvede a chiamare il medico Alessio De Pacificis. Fiorentini viene assolto dalla Gran Corte Criminale, non essendovi istanza di punizione dalla parte offesa. Gaetanella morirà tre anni dopo, l’8 febbraio 1846, «per vizi tubercolari in cui degenerò la infiammazione flemmonosa al polmone, e per cause estranee alla ferita», come clinicamente accertato e successivamente confermato dalla Facoltà medica dell’Università di Napoli.
Strano che l’alfiere Pisacane non risulti essere stato ferito né aver provato a soccorrere la donna. Sta di fatto che si fa circa sei mesi di carcere, periodo insolitamente lungo per un’accusa di adulterio, venendo poi scarcerato «per la rinuncia dell’istanza fatta dall’un coniuge a pro dell’altro», il che «giova al complice». Nel frattempo gli amici influenti scendono regolarmente in campo. Ovviamente la storiografia apologetica sorvola su tali interrogativi ed anzi, autoinvestendosi di competenze peritali straordinarie (perché esercitate a oltre un secolo di distanza), sentenzia che la ferita arrecata dal marito influì certamente nella morte della povera ragazza.
Riottenuta la libertà, lo scavezzacollo cede il posto al bravo studioso di arte militare; così Pisacane scrive una Memoria sulla frontiera Nord Orientale del Regno di Napoli, che invia al generale Carlo Filangieri. Alla fine dell’anno gli viene affidata la progettazione del corso Maria Teresa (oggi Corso Vittorio Emanuele) a Napoli. Difficile pensare che abbia potuto ottenere l’incarico senza la benevolenza di Ferdinando II. La sua vita sembra nuovamente indirizzarsi verso brillanti mete professionali. Ma che nelle vene gli scorra sangue bollente è ancora una volta dimostrato dalla sua adesione alla sottoscrizione promossa da Giuseppe Mazzini per donare una sciabola d’onore a Giuseppe Garibaldi, il quale nel frattempo, secondando come sempre le mire britanniche, si stava battendo in Sud America, nella guerra che condusse all’indipendenza dell’Uruguay dall’Argentina.
Il 12 ottobre 1846 il Nostro viene accoltellato in via san Gregorio Armeno. Per una minoranza di studiosi si sarebbe trattato una spedizione punitiva organizzata dal marito della Michilli, morta da appena due mesi. Ma questa ipotesi non tiene conto del fatto che la sua vita sentimentale continua ad essere spericolata. In quello stesso anno ha allacciato infatti un altro legame adulterino, con la bella ventiseienne Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un suo cugino banchiere, Dionisio Lazzari. Costei, madre di tre figli, lo assiste durante la sua convalescenza. Si affaccia allora prepotentemente un’altra spiegazione del suo ferimento: la vendetta del cugino per una relazione già in atto. Tanto più che il Lazzari, forse timoroso di essere a sua volta perseguito per tentato omicidio, non denuncerà mai gli amanti.
Sta di fatto che l’8 febbraio 1847 Carlo Pisacane ed Enrichetta Di Lorenzo, muniti di passaporti falsi, intestati a due domestici, fuggono via mare. La sua carriera nell’esercito, che poteva essere costellata di successi, si interrompe.
Peraltro, la disciplina militare, oggettivamente non gli si addice, se già a quel tempo pensa ciò che scriverà in una lettera del 1851 (questo e altri dati interessanti si rinvengono nell’introduzione di Giuseppe Galzerano a La Rivoluzione di Carlo Pisacane, a cura di Aldo Romano, Galzerano editore, 2002), ossia che la sola forma di governo giusta e sicura è l’anarchia di Proudhon; forse ignorando che il pensatore francese respingeva la stessa idea di un governo.
Sorge a questo punto spontanea una domanda: come è possibile che un elemento di simpatie rivoluzionarie, caratterialmente ribelle e insofferente alla disciplina e alle regole, che aveva già conosciuto le patrie galere, resosi protagonista di ripetuti episodi che anche il diritto attuale valuta negativamente, ma che legge e morale di quei tempi condannavano severamente, potesse aver conservato il suo grado militare e addirittura ricevere prestigiosi e delicati incarichi fino a quando, per sua esclusiva scelta, si rese disertore? Dando per scontato il talento tecnico del giovane Pisacane, possibile che l’esercito delle Due Sicilie non fosse in grado di individuare e scartare soggetti dalle potenzialità eversive così spiccate? Per quanto assurdo possa sembrare, la risposta dev’essere: possibilissimo; anzi, vedremo più avanti come l’irrequieto sovversivo abbia addirittura accarezzato l’idea di rientrare nei ranghi dell’esercito napoletano.
Ma Pisacane, a modo suo, è un idealista. Non di quelli che portano alle estreme conseguenze i princìpi etici espressi dalla comunità: la sfera di valori che riconosce non discende dalla tradizione, ma si sostanzia nell’elaborazione personale di idee circolanti negli ambienti settari e rivoluzionari: «Non bisogna fare mai come gli altri: volere è potere!» (Epistolario, pag. 156-57)
L’amore fra uomo e donna, nella lunga lettera ai parenti che scrive prima di imbarcarsi, è un bene sacro, che merita ogni sacrificio. Per conseguirlo e difenderlo è lecito, anzi giusto e doveroso: corteggiare una donna sposata, madre di tre figli, la cui frequentazione era facilitata dalla parentela con il marito; disertare dall’esercito violando il giuramento militare; espatriare in modo fraudolento adoperando passaporti falsi.
L’amore fra madre e figli, invece, sembra appartenere a una dimensione subordinata e il relativo rapporto deve cedere di fronte all’apoteosi dell’amore romantico (del resto con quel marito, dice di Enrichetta liquidando sbrigativamente il problema, per i figli avrebbe potuto fare ben poco). Si noti che le vicende familiari della Di Lorenzo suscitarono scandalo e riprovazione anche in ambienti “progressisti” dove si apprezzava l’esempio di Giuditta Sidoli, che nel 1833, rimasta vedova da qualche anno, non aveva esitato ad abbandonare l’amato Mazzini a Marsiglia per tornare in Italia e Ricongiungersi con i figli (Emma Scaramuzza, Politica e amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere, FrancoAngeli Storia, 2010, pag. 172).
Comunque, i dilemmi struggenti che la vita gli presenta, Carlo Pisacane li risolve in un modo molto diverso da ciò che la morale corrente a quel tempo suggeriva e in parte ancora oggi suggerisce. Del resto dichiarava di aborrire l’esempio altrui. Quindi ciascuno deve costruirsi una propria morale, mai conformandosi al comune sentire. Non si può negare che, nel turbine delle passioni, Pisacane fa una scelta radicale e la difende con parole ardenti e ammalianti, scritte in francese (non si sa se per disprezzo del mondo che lo circonda o perché spera che il suo epistolario sia letto anche all’estero), che i suoi apologeti sbandierano appassionatamente. La sua concezione assoluta dell’amore non può lasciare indifferenti. Non possiamo, però, negare che anche verso una donna che non rappresentava il suo ideale amoroso (anzi, dichiarò successivamente di essere stato sempre innamorato di Enrichetta), Gaetana Michilli, si è comportato in modo spregiudicato e risoluto. Questa ragazza sfortunata, oggetto fugace della passione senza scrupoli del turbolento militare napoletano, lasciò la vita troppo presto per poterci lasciare qualche testimonianza sulla sua triste vicenda.
A differenza degli agiografi liberali, noi crediamo che nessuno possa azzardare con certezza un giudizio morale su un altro essere umano. Ci limitiamo a notare che introdurre in una casa o in una caserma un individuo eccentrico (excentrique), incline a slanci di travolgente furore “romantico” era un azzardo da evitare.
Ma la tragica morte di Pisacane ha ancora più accresciuto il fascino dei suoi scritti, sicché è gioco facile, per chi ne ha fatto un santo “laico” (rectius, ateo), fingere di stracciarsi le vesti ogni volta che qualcuno cerca di osservare con obiettività la sua parabola terrena.
Parabola che nell’inverno del 1847 lo porta con Enrichetta, dopo l’attraversamento di un Tirreno in tempesta, prima a Civitavecchia, poi a Livorno, dove ottengono due nuovi passaporti napoletani. Efficienza organizzativa notevole. Vale forse la pena di ricordare come la città toscana – amata da Garibaldi, nel 1864 Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, il quale spinse la moglie Francesca e la figlia Clelia a prendervi casa e gratificata dal privilegio raro (per i centri non grandi) di essere designata da un termine apposito nella lingua inglese, Lighorn – vantasse «un indiscutibile primato: quello di essere stato l’unico centro in Italia dove l’attività libero-muratoria non si è mai interrotta, neppure quando la massoneria è stata messa al bando dal governo lorenese, durante la Restaurazione» (Gustavo Raffi, prefazione a La massoneria a Livorno, Il Mulino, 2006; Firenze e la Toscana: Quello che non si osa dire, di Antonio Giangrande).
In quel luogo così vivace, dunque, sapienti mani amiche confezionano per i due fuggiaschi innamorati i documenti necessari a proseguire il viaggio. L’ispettore di polizia inviato dal governo napoletano giunge nella città labronica quando la nave con i due amanti è già ripartita, e non gli resta che saldare diligentemente il conto della locanda in cui avevano alloggiato a sbafo, sequestrare il bagaglio e tornare mestamente nella capitale da solo.
L’agognata Londra, meta della coppia, ha però solerti funzionari che non sorvolano sulla loro condizione di adulteri con passaporti falsi, e sul fatto che Carlo è anche disertore del suo esercito. Comunque la macchina dell’estradizione non si mette in moto, perché ai due fuggiaschi viene amichevolmente consigliato, per evitarla, di ripassare la Manica.
Comincia così il periodo francese. A Parigi, l’ambasciatore napoletano, Duca di Serracapriola, fa avvicinare Carlo ed Enrichetta da persone che pazientemente cercano di indurli ad abbandonare la strada della latitanza sperando nella clemenza del Sovrano. Tutto vano; i due appaiono assolutamente irriducibili. In particolare, Carlo esclude di poter tornare sui suoi passi, perché il pentimento appartiene a chi agisce senza riflettere. Però questo sovversivo tutto d’un pezzo non si vergogna di chiedere – ovviamente senza esito – un passaporto all’Ambasciatore del Regno delle Due Sicilie!
Nella ville lumière, Carlo diviene frequentatore della casa del generale Guglielmo Pepe, ove incontra molti esuli italiani, oltre che intellettuali transalpini. Ecco come da una passione amorosa può scaturire una catena causale di eventi, che alla fine conduce un giovane ribelle proprio nel luogo adatto a sublimare i suoi impulsi trasgressivi: un autentico vivaio di rivoluzionari.
In questo ambiente pieno di fermenti, Pisacane matura una decisione che determina un vero e proprio colpo di scena: si arruola nella Legione straniera francese per combattere in Algeria! Scrive al fratello Filippo: «il mio destino è Affrica». Per realizzare il suo obiettivo, si avvale dell’intercessione (oggi si direbbe raccomandazione) del duca di Montebello, ministro della marina francese e vecchio amico della famiglia Pisacane quando era stato ambasciatore a Napoli (sarà anche appartenuta alla nobiltà “decaduta”, ma com’era ben introdotta negli ambienti di potere la famiglia dell’anarchico errante!). Per la destinazione africana si adopera invece, in modo determinante, la famiglia Di Lorenzo. Come si vede, i figli di papà non disdegnano affatto i vantaggi dell’appartenenza a famiglie influenti.
In quegli ultimi mesi del 1847 le richieste di aiuto ai potenti si fanno frenetiche. Fra esse spicca una missiva singolarissima, datata 6 novembre, che con sfrontatezza incredibile scrive al solito, paziente ambasciatore napoletano a Parigi: «Eccellenza, avendo abbandonato il mio posto, non solamente ho perduto l’onore di essere compreso nel nobile corpo ove appartenevo, ma non sono neanche degno d’implorare come Suddito la Sovrana Clemenza.// L’E.V. conosce la mia presente situazione la quale mi obbliga a cercare un’occupazione per vivere; e conservando vivo l’amore per la carriera che ho intrapresa dall’infanzia, ho chiesto servire in Africa come straniero. Imploro, Eccellenza, la sua alta protezione onde questo esilio che io utilizzo cercando istruirmi nel mio mestiere, presentato da Lei ai piedi del Trono, mi valga col tempo il perdono ed un posto di soldato nelle file della Regia Armata Napoletana».
Per quanto inverosimile ci possa apparire, è proprio l’adamantino e fiero rivoluzionario che si abbassa a scrivere queste servili invocazioni, di fronte alle quali appaiono più onorevoli quelle che nel film comico Non ci resta che piangere Massimo Troisi e Roberto Benigni rivolgono a Savonarola. Forse per un profeta della morale fai-da-te anche la dignità è un valore tradizionale privo di senso.
Evidentemente, Pisacane suppone che l’ambasciatore, il quale già gli ha dimostrato umanità e pazienza, intercederà con forza presso il Re; che il fratello Filippo sosterrà la genuinità del suo pentimento; che Ferdinando II acconsentirà senz’altro a reintegrarlo nell’esercito e, magari nel grado; con quella indulgenza che, tante volte manifestata, finiva per collocare nei gangli dell’amministrazione civile e militare molti accaniti odiatori della monarchia borbonica. Dimenticava probabilmente, il Sovrano, che il giuramento prestato nelle società segrete è molto più difficile da trasgredire rispetto a quello reso al Re dinanzi a Dio.
Dobbiamo, a questo punto, constatare che, a parte il disprezzo per ogni regola, molte sono le contraddizioni e i lati oscuri di questa storia.
FFermiamoci un attimo a riflettere. Come è possibile, ad esempio, che la sua amatissima Enrichetta, nel frattempo in dolce attesa, venga da Pisacane abbandonata per una lunga e rischiosa avventura militare? Qualcosa non torna. Molti, anche di orientamento risorgimentalista (Emma Scaramuzza, cit.; Agenzia Giornalistica 9 Colonne, direttore Paolo Pagliaro, Donatella Massara, sito Graphomania) riferiscono di una breve relazione di Enrichetta con l’amico e compagno di studi di Pisacane Enrico Cosenz; ma la collocano nel 1850, mentre l’arruolamento nella Légion Étrangère è del 21 ottobre 1847. Che pensare? Forse è nelle ristrettezze economiche, che va ricercata la causa determinante della drastica scelta.
Ma a noi interessa di più la valenza politica di questo arruolamento nel famoso corpo di mercenari.
La Legione Straniera francese fu fondata dal re Luigi Filippo di Francia il 10 marzo 1831, a supporto della sua guerra di conquista dell’Algeria. E quando Pisacane presenta la richiesta di arruolamento è impegnata nella guerra coloniale che vede come avversario l’emiro Abd-el-kader, fondatore di un regno indipendente nella parte centrale ed occidentale dell’Algeria. Il 23 dicembre 1847 il capo indipendentista si arrende al generale Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière, ponendo così fine all’esistenza del suo dominio che entrò a far parte dell’Algeria francese. Ancora oggi, Abd-el-kader è considerato il padre della patria algerina.
Quindi il nostro rivoluzionario, strano (si fa per dire) ma vero, si schiera per il colonialismo delle potenze europee contro l’anelito alla libertà e all’indipendenza di un popolo.
Tuttavia, purtroppo per l’irrequieto duchino, e forse anche per noi, quando egli giunge nel paese nordafricano, ad Orano, il 16 dicembre 1847, gli algerini erano sul punto di arrendersi. Che noia la vita del mercenario quando le armi tacciono! Rivela tutta la sua desolazione in una lettera al fratello, vergata il 23 febbraio 1848 dal campo di Sidi Bel-Abbes: «Veniva in Africa per cercare un diversivo nella guerra alla mia passione; al mio arrivo è cominciata la pace e finite tutte le probabilità di avanzamenti. Noi passiamo la vita in ozio completo sotto una tenda, e sono condannato, io, di leggere le notizie del mio paese come uno straniero. Io preferisco tutto a questo mio presente martirio: desiderando di cercare avventure altrove, mi succede trovarmi lontano da quelle del mio paese. Io potrò subito venire in congedo, ma mi mancano i mezzi».
Queste sconcertanti dichiarazioni indicano che l’uccisione di altri uomini veniva da Carlo Pisacane considerata come un efficace rimedio a uno stress emotivo. Vengono in mente le parole che Emma Scaramuzza riferisce alla sua compagna Enrichetta De Lorenzo, ma che calzano perfettamente anche all’amante: la libertà dei sentimenti e la ricerca individuale della felicità sono concepite come una sorta di legge di natura, che nessuna vieta consuetudine poteva conculcare (Emma Scaramuzza, cit.). In altri termini, l’individuo si pone al centro del mondo ripudiando le convinzioni e le regole accettate dalla comunità. E peggio per chi diventa un ostacolo alla realizzazione individuale.
Tuttavia, per fortuna dei rivoluzionari, vi sono persone che si prestano ad aiutarli. O perché li ritengono utili ai propri scopi, o per fedeltà proprio ai princìpi etici della comunità e alle istituzioni tradizionali che essi hanno ripudiato. Un colonnello francese appoggia in modo decisivo la sua domanda di congedo e il fratello borbonico gli fornisce le risorse economiche per tornare in Italia: «Questa felicità la debbo a te. Mio caro fratello; il favore che tu mi rendi è di un valore inapprezzabile.»
Comunque, nessuno sia così ingenuo da illudersi: appena un anno e mezzo dopo l’ineffabile lettera a Serracapriola ritroviamo l’implorante “Suddito” (che nel frattempo ha rinunciato alla “Sovrana Clemenza”) impegnato a Velletri a combattere contro la “Regia Armata Napoletana”, in cui poco prima aveva ambito a tutti i costi di essere riammesso e nelle cui fila militano, oltre allo stesso fratello Filippo, diversi suoi ex compagni di corso alla Nunziatella.
La traiettoria di vita dell’irruente sovversivo comincia ad apparire come una linea di sangue.
(continua)