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La Guerra delle Parole

BCC

di Edoardo Vitale (La Voce di Sud e Civiltà)
Bisogna riconoscerlo. Gli strateghi della disinformazione sulla storia del Sud ci hanno saputo fare. Ben poco è stato lasciato al caso. Tutti gli eventi, piccoli e grandi, della vita delle Due Sicilie sono stati passati al setaccio del vincitore, che per imporre la sua “versione ufficiale” è intervenuto, all’occorrenza, con la menzogna, la rimozione, la grancassa retorica, il martellamento mediatico. Un lavoro affidato all’interessato zelo di politici, funzionari, giornalisti, accademici, notabili, tutti convinti che i fini – quello dichiarato di portare a compimento la forzata unificazione italiana e quello taciuto di consolidare la propria fortuna personale – giustifichino i mezzi.

Si trattava di schiacciare con un macigno l’orgoglio di un popolo, di soffocare il sentimento vivo e bruciante degli infiniti lutti, soprusi, sofferenze causati dalla cruenta colonizzazione sabauda, di spegnere ogni sussulto di ribellione alla prepotenza dei “galantuomini” filopiemontesi.

L’impresa non era facile. I segni della violenza del conquistatore erano così numerosi ed evidenti, che non sarebbero potuti sfuggire a un osservatore in buona fede. Per impedire che emergessero le responsabilità degli invasori e dei collaborazionisti locali, occorreva negare e occultare sistematicamente ogni aspetto positivo dell’epoca borbonica, fare della calunnia, anche volgare, un abusato ritornello.

Ma neanche questo è apparso sufficiente. Era necessario instradare le menti sui binari del luogo comune, incoraggiare la pigrizia mentale, neutralizzare lo storico intraprendente spingendolo, quasi inavvertitamente, nella palude delle comode banalità.

Si è scatenata, così, la guerra delle parole. Strumento subdolo, caro ai truffatori, che con i regimi antipopolari assurge a dimensioni globali. Per designare un fenomeno si impone, attraverso la ripetizione ossessiva, l’uso di un vocabolo non appropriato o che richiama qualcosa di diverso, fino a che non si genera, nell’opinione pubblica, l’idea che esso esprima in modo veritiero il fenomeno.

Esempio fin troppo noto è quello dell’aggettivo “borbonico”, utilizzato dai colonizzatori per indicare ogni episodio di inefficienza (vera o presunta) della pubblica amministrazione nei territori occupati, anche quelli causati dalla politica sabauda: ancora oggi molti, anche nel Sud Italia, lo adoperano come sinonimo di arretratezza e lassismo morale, ed è disarmante la loro meraviglia nell’apprendere dati che dimostrano, nella maggior parte dei casi, l’esatto contrario.

Ma il campo dove la malafede dei filopiemontesi ha dato il peggio di sé è il cosiddetto brigantaggio. E lo si comprende. Qui c’era da occultare l’ingombrante realtà di un popolo insorto in armi contro l’invasore, che clamorosamente sbugiardava l’indecente messinscena del plebiscito-truffa, di una repressione disumana che ha seminato terrore e morte per quasi un decennio, con episodi di belluina ferocia commessi anche da reparti regolari dell’esercito.

Si doveva impedire che il mondo capisse chi erano le vittime e chi i carnefici di un’operazione che calpestò insieme il diritto internazionale e il diritto delle genti, in esecuzione di un complotto liberal-massonico; che il mondo scorgesse la cinica operazione di chirurgia sociale che portò alla decimazione – attraverso i massacri, la pauperizzazione e l’emigrazione – del ceto contadino a tutto vantaggio della rampante borghesia agraria, i cosiddetti galantuomini, liberali nella misura in cui il patto di solidarietà fra sovrano e popolo ne frenava gli smodati appetiti («la classe dei proprietari … che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose», scrive il 6 ottobre del 1960 a Garibaldi il prodittatore di Basilicata). Si doveva evitare che i meridionali riconoscessero nei coraggiosi combattenti di quella guerra giusta i degni rappresentanti della fierezza di un popolo.

Si è cominciato con il termine “briganti”, che non appartiene alla parlata del Sud, ma è di origine gallica (brigands), e fu usato originariamente, sempre con intento denigratorio, per indicare gli insorgenti antifrancesi della fine del ’700. Si è poi continuato con la sistematica adozione di una terminologia atta a designare fenomeni criminali: banda, masnada, manutengolo, fiancheggiatore, complice, malfattore, connivente, ecc..

Lo storico lucano Tommaso Pedio ha bene spiegato come il governo unitario abbia sin dall’inizio stroncato ogni tentativo di compiere un’analisi onesta dell’insurrezione meridionale, imponendo d’autorità, con la Commissione parlamentare Massari, la versione di comodo che esaltava la repressione e relegava la rivolta degli oppressi a fenomeno delinquenziale.

Ciò si comprende. Il vincitore senza scrupoli difende come può il suo bottino. Quello che sorprende è l’atteggiamento di quanti, dopo che il lavoro di tanti veri storici ha smantellato le menzogne più colossali, ancora oggi continuano a cadere nel tranello.

L’approccio criminologico a un fenomeno che coinvolge moltitudini e infiamma la quasi totalità di vasti territori, oltre che oggettivamente calunnioso nei confronti di un popolo implicitamente tacciato di tendenze delinquenziali, è poco scientifico ed è un assurdo “privilegio” riservato alla grande insorgenza del Sud. È spiegabile che se ne avvalgano i paludati professionisti del “politicamente corretto”: da autentici e scaltri combattenti della guerra delle parole, essi, senza scadere nelle falsificazioni troppo grossolane, che si ritorcerebbero contro di loro facendoli cadere nel ridicolo, vogliono dare del brigantaggio un’immagine romanzesca, utile a solleticare le morbose curiosità del benpensante e ad allontanare i nostri combattenti nella regione del picaresco e del bizzarro, rendendoceli sostanzialmente estranei e incomprensibili. Li si riconosce, spesso, dalla smorfia di cinico disincanto con cui trattano l’argomento, come per far capire che si sta parlando della patetica lotta di poveri straccioni. Si avverte in loro l’eco del “positivismo” di Cesare Lombroso, che misurava i crani dei “cafoni” meridionali per dimostrarne la genetica propensione al delitto.

Dispiace e preoccupa, piuttosto, la confusione di idee e di metodi che rischia di sviare tanti ricercatori in buona fede, rendendoli inconsapevoli strumenti della strategia dei nemici del Sud. Ad essi diciamo: attenti, la battaglia delle parole è in pieno svolgimento e il suo esito è tutt’altro che scontato. Smettiamola, amici, di confondere la grande insurrezione nazionale antipiemontese con il fenomeno del brigantaggio pre-unitario, che pure va approfondito nelle cause e nella portata. È ovvio che in una sollevazione popolare possano confluire elementi dalla fedina penale non immacolata e che, magari, essi possano assumere posizioni di rilievo in virtù della maggiore attitudine al comando, della maggiore dimestichezza con le armi, della maggiore spregiudicatezza. È scontato che il guerrigliero, e quando non ottiene spontaneamente il necessario per vivere grazie alla rete di solidarietà (non complicità!) che lo circonda, se lo procura con la forza. Ciò è sempre avvenuto e sempre avverrà, ma non ha mai indotto gli storici seri a utilizzare per questi fenomeni categorie criminologiche. Liberiamoci dai riflessi condizionati.

Si continui pure a utilizzare i termini “briganti” e “brigantaggio”, rivendicandoli orgogliosamente fino a capovolgerne il significato dispregiativo, sull’esempio di quella meravigliosa medaglia del 1861 che incoronava Maria Sofia come “Regina dei briganti” (L’Alfiere n. 46). Ma si riaffermi la serietà terminologica parlando di guerriglia e di guerriglieri, e non solo di bande di briganti; di solidarietà, anziché di complicità; di sostegni, anziché di connivenze; e così di seguito. Ancora adesso dobbiamo leggere, anche negli scritti di studiosi a noi vicini, espressioni come “la banda che infestava la zona di…”; sì, proprio “infestava”, come uno sciame di cavallette. Questo verbo, riferito a formazioni di combattenti che agivano nel loro territorio di origine con l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, è palesemente assurdo, e sarebbe ben più appropriato per gli invasori che occupavano territori con la violenza, circondati dall’ostilità degli abitanti.

Respingiamo, amici, le suggestioni subliminali dettate dai colonizzatori di ieri e di oggi. Se le litanie ipnotiche del conformismo hanno scavato nelle menti di qualcuno percorsi obbligati, sterili e senza uscita, accendiamo con la nostra onestà e il nostro entusiasmo nuovi circuiti cerebrali, idee limpide e libere da ogni condizionamento. Facciamolo per la memoria dei nostri padri. Per la speranza dei nostri figli.

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