Di Edoardo Vitale (Rubrica L’Alfiere)
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È bastato ragionare su Carlo Pisacane partendo da fatti riferiti da storici liberali e da dichiarazioni dello stesso rivoluzionario o di chi condivideva le sue battaglie antiborboniche per scatenare l’accusa di aver (addirittura!) fatto partire una “macchina del fango”. Addebito paradossale, ove si consideri che l’unica vera macchina da 160 anni funzionante a pieno regime, quasi sempre col denaro pubblico, è quella, mastodontica, che distribuisce (fra l’altro) patenti di eroismo civile a chi assecondava i disegni dei rivoluzionari del tempo e di infamia subumana a chi vi si opponeva in qualsiasi modo, sorvolando sugli aspetti “scomodi” del cosiddetto risorgimento e verniciando di retorica azioni che non sempre lo meritano.
Noi vogliamo riflettere pacatamente anche sull’avventura di Pisacane, senza trascurarne i lati oscuri. E continueremo a farlo perché sentiamo la ricerca della verità e la difesa della libertà di espressione come doveri civici fondamentali. Né questo può mai far venir meno il rispetto e la comprensione: di cui avrebbe grande bisogno una storia non avvelenata dall’odio. Ma sappiamo che questa regola così elementare non è condivisa da chi divide personaggi antichi e attuali in angeli e demoni, secondo un criterio di convenienza ispirato a finalità non confessabili, non solo politiche.
Procediamo, dunque, nella nostra disamina, osservando come, man mano che la traiettoria di vita di Carlo Pisacane si avvicina al suo sanguinoso epilogo, cresca un sentimento di malinconia e di raccapriccio per una giovane esistenza lanciata verso il sacrificio. Ma anche per le altre vite che, direttamente o indirettamente, saranno travolte da questo slancio.
Nel suo febbrile peregrinare, Pisacane non si rammarica di aver abbandonato gli agi legati all’ambiente familiare, però la disponibilità economica e le amicizie influenti della sua famiglia altolocata gli tornano utili molto spesso. Intanto, è il fratello “borbonico” che lo aiuta a tornare in Italia. Aiuto discutibile, visto che non gli serve per riprendere la carriera nell’esercito napoletano, come lasciava supporre la sua lettera in cui implorava il perdono di Re Ferdinando II, ma per combattere i suoi ex commilitoni. Un’altra bella spinta nella stessa direzione gli viene dal colonnello francese Mellinet, evidentemente anch’egli sensibilizzato grazie all’influenza familiare, che lo aiuta a lasciare la Legione Straniera. Infatti il servizio in Algeria, divenuto tranquillo essendo stata stroncata la guerriglia patriottica di Abd-el-Kader, ormai lo annoiava a morte.
Nel frattempo, il 16 febbraio 1848, mentre militava in Africa, gli era morta la figlia Carolina. Nel marzo di quello stesso anno riabbraccia Enrichetta che gli dà forza per affrontare i nuovi cimenti e lo segue a Milano. Lì si arruola nell’esercito lombardo e con la sua compagnia ha uno scontro vittorioso con gli austriaci. Rimane ferito, ma la sua donna gli è vicina. Si sposta a Lugano e poi in Piemonte. L’8 marzo del 1849, passando per Livorno, la coppia arriva a Roma per dare una mano al governo repubblicano. Lui da combattente, lei da infermiera.
Il fratello Filippo rischia lo scontro armato con lui quando, a Velletri, come componente della cavalleria napoletana, se lo trova di fronte quale capo di stato maggiore dell’esercito romano comandato dal generale Pietro Roselli. Si trattava di una guerra la cui violenza era accresciuta dall’odio ideologico, dobbiamo dire soprattutto da parte dei “liberali”. Lo stesso Roselli, nelle sue Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1849, racconta come alcuni soldati napoletani e siciliani, catturati mentre si ritiravano a Velletri e ormai inermi, furono presi a colpi di baionetta dai repubblicani, i quali, rimproverandoli per non essersi schierati contro “la comune patria”, parecchi ne uccisero e parecchi ne ferirono gravemente. Condotta contraria all’umanità e all’onor militare, che non è escluso abbia colpito anche qualcuno che era stato commilitone di Carlo Pisacane nell’esercito regio.
Così si comportavano i nuovi compagni d’arme dell’ex alfiere di Ferdinando II, re da lui definito “vile tiranno”, di cui però, soltanto un anno e mezzo prima (lettera del 6 novembre 1847), implorava “come Suddito” la “Sovrana Clemenza”.
Va aggiunto che durante la guerra per Roma Carlo Pisacane entra in contrasto con Giuseppe Garibaldi, insofferente alla disciplina organizzativa che egli, come capo di S.M., intendeva imprimere all’armata repubblicana.
Dopo che i francesi hanno rovesciato la Repubblica e riportato a Roma il Papa, è arrestato e poco dopo liberato, grazie, questa volta, all’interessamento della famiglia di Enrichetta. Riprende il suo peregrinare seguendo le vie dell’esilio dei rivoluzionari: Marsiglia (viaggiando insieme col liberale cilentano Antonio Galotti), Ginevra e Svizzera (via Germania e Prussia), Londra. In Inghilterra è accolto come eroe. Segue Genova, ove alloggia in una casa di collina dotata di ricca biblioteca, fa ginnastica e irrobustisce le sue convinzioni socialiste. Lì incontra altri esuli cilentani.
Il 28 novembre 1852 nasce sua figlia Silvia, che non fa battezzare. La nascita è nascosta ai parenti della madre.
Nel 1854 muore il patrigno di Carlo, generale Tarallo, che gli faceva avere una somma ogni mese. Vive quindi poveramente. Nel 1856 trova lavoro collaborando a costruire la ferrovia di Mondovì. Sempre in quell’anno fonda il periodico La libera Parola.
Insomma, una vita incredibile, sempre in movimento, tra pericoli, viaggi, incontri straordinari. In cui vi sono alcune costanti. Innanzitutto, l’odio e il disprezzo per i regimi conservatori e per i valori della società tradizionale. Poi la convinzione che qualsiasi mezzo vada adoperato per abbatterli. Rimprovera al generale francese Oudinot di aver negato il bombardamento della città di Roma, proprio in quanto riconosce che sarebbe stato suo diritto ricorrervi.
Un’altra costante è l’inserimento in una immensa rete di solidarietà, che si irradia dalle capitali delle potenze imperialistiche di matrice liberale, Londra e Parigi, alle irrequiete Genova e Marsiglia, a Malta; dall’ospitale Svizzera, ai centri italiani di transito e partenza di esuli e congiurati, come Livorno e Civitavecchia. Addirittura in Algeria, nella Legione Straniera, in mezzo a “molti spostati turbolenti”, abbondano gli esuli politici.
Un imponente movimento internazionale, in cui i anche i più accesi nazionalisti sono legati da una solidarietà che trascende di gran lunga le proprie identità, in quanto nasce dall’avversione irriducibile contro l’ordine tradizionale. Cui non si riconosce alcun aspetto positivo e che è visto come una mostruosità da abbattere.
Anzi, va sottolineato che quando vi sono popoli che nella ricerca della libertà e dell’indipendenza si battono contro le potenze capitalistiche e liberali, i sovversivi di quel tempo non esitano a schierarsi con queste ultime. È il caso appunto di Carlo Pisacane che in Algeria si arruola fra i mercenari della Légion Étrangère per combattere gli indipendentisti guidati da Abd-el-Kader, considerato il padre della patria algerina. Analoga scelta di campo, del resto, aveva fatto in Sud America Giuseppe Garibaldi; strenuo difensore degli interessi britannici.
Questi legami si concretizzano in una formidabile struttura organizzativaÈ
, che con efficacia e rapidità procura alloggi, denaro, passaporti falsi, armi. In una lettera del giugno 1856 a Giuseppe Fanelli, colui che fa conoscere a Bakunin il pensiero rivoluzionario di Pisacane, questi dice chiaramente che “non sarebbe difficile trovar danaro” per una spedizione nel Napoletano, a condizione di spiegarne bene l’utilizzo a chi lo può fornire. Infatti, aggiungiamo noi, chi dispone di ingenti somme di denaro le elargisce soltanto quando è sufficientemente sicuro che vengano impiegate per un obiettivo a lui vantaggioso.
Le maglie di questa rete che attraversa i confini di tutti gli stati si infittisce per la sovrapposizione di un’altra rete, pure importante ed efficace, quella della solidarietà familiare e di ceto (nobiltà e ricca borghesia). Gli entourages di Carlo ed Enrichetta riescono a contattare ambasciatori, funzionari, ufficiali napoletani e stranieri, e a far pervenire ai loro protetti risorse economiche, anche se non sempre con la necessaria continuità. In ogni caso, il fatto che aiutarli significasse spesso oggettivamente facilitare azioni aggressive e violente nei confronti del Regno delle Due Sicilie e potenzialmente rischiosissime anche per i diretti interessati non sembra sia stato un problema per nessuno, a cominciare dall’amato fratello, Filippo, personalmente rimasto fedele alla monarchia.
Intanto, si va consolidando in lui la convinzione che per realizzare il “risorgimento italiano” non ci si debba affidare a prìncipi o a partiti, dovendosi piuttosto ottenere l’appoggio di tutta la nazione. Un’eventuale vittoria di Luciano Murat renderebbe il Regno delle Due Sicilie “una provincia della Francia”. Mentre se la spada della liberazione d’Italia fosse brandita da Vittorio Emanuele di Savoia si cadrebbe in “una nuova catastrofe”: «Il volgo accetta il linguaggio dei fatti, e non ragiona sull’avvenire: vedendo cacciato il Bomba, proclamata una nuova dinastia, si sottometterà molto più volentieri a chi gli promette immediata tranquillità, che a noi che dichiariamo guerra all’Austria» (lettera a Fanelli del 15 settembre 1856). Invece, partendo dal territorio più vasto, quindi dal regno del Sud, occorre che un gruppo di patrioti, anche esiguo, infligga un colpo terribile alla monarchia borbonica, mediante una spedizione che infonda nelle popolazioni il coraggio di rovesciare la tirannia di Ferdinando II.
Mazzini è ovviamente coinvolto e altrettanto il comitato insurrezionale napoletano, di cui è parte l’amico Giuseppe Fanelli. La rete sovversiva comincia a sprizzare scintille nell’asse Londra, Genova, Napoli, Malta (lettera del 16 aprile 1856 a Fanelli). Garibaldi, in un primo tempo d’accordo sulla necessità di una spedizione, si tira indietro. Per lui, senza l’appoggio del governo piemontese non si fa nulla. Sarà coerente quattro anni dopo, quando quell’appoggio se lo assicurerà ben prima di salpare da Quarto.
Il cambio di regime nelle Due Sicilie non agita i pensieri di chi lavora nelle campagne o nelle fabbriche, ma costituisce un appetibile obiettivo nelle stanze più o meno segrete dei congiurati liberali e nelle sfarzose sale del potere capitalista e imperialista.
Carlo Pisacane si compiace del fatto che Lord Palmerston garantisce il non intervento inglese nel caso di instaurazione a Napoli di un governo repubblicano (lettera a Fanelli del 24 marzo 1857). Quindi di questa congiura era stato informato il primo ministro britannico, che dimostra di vederla di buon occhio! Si confermano l’efficienza della rete e l’albionica coerenza nell’appoggio alla pirateria contro le comunità da sottomettere.
Pisacane ormai è lanciato come la locomotiva di Guccini e Mazzini lo sprona, mentre gli esuli cilentani a Genova lo sconsigliano. Secondo il liberale moderato Mazziotti, l’impresa fu “una follia commessa contro il parere di tutti e all’insaputa di tutti; ma è stata una magnanima follia” (lettera di Mazziotti a Francesco De Siervo del 26 luglio 1857). Precisa Carmine Pinto che Mazzini e Pisacane ebbero contro il parere di tutti i nazionalisti radicali, come Garibaldi, Bertani, Saffi, Medici, degli esuli meridionali più influenti, come Cosenz, Conforti, Crispi e Musolino, e dei liberali in carcere nel Sud, come Spaventa o Settembrini. Tutti consideravano folle un tentativo del genere, la cui disorganizzazione era evidente.
Come luogo dello sbarco pensa in un primo tempo a Palinuro, poi sceglie Sapri. Di là ci si dirigerà ad Auletta, per formare “massa”. Il rivoluzionario Pisacane sa fare tesoro dell’esperienza del cardinale Ruffo nella riconquista antifrancese del 1799. Il suo desiderio è che si pugnalino tutti gli appartenenti alla polizia e al “partito regio”. Stila un Proclama per l’esercito, promettendo ai militari, oltre a “uno splendido avvenire”, “un’agiata ed onorata esistenza” e l’elezione degli ufficiali da parte della truppa.
Il 4 giugno 1857 si riuniscono a Genova Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane, Agostino Castelli, Giovanni Nicotera di Sambiase (Lametia Terme), pare entrato su consiglio di Cavour (!), Giambattista Falcone di Acri (Cosenza), i tarantini Vincenzo Carbonelli e Nicola Mignogna, Rosolino Pilo di Palermo e il napoletano Enrico Cosenz. Si decide di partire il 10 perché i “postali” per Cagliari e Tunisi della Rubattino partono da Genova ogni mese il 10 e il 25.
Pisacane infatti ha già contattato la Rubattino, favorito dal fatto che a Napoli ne era rappresentante Carlo Di Lorenzo, padre della sua amata. Si raggiunge un accordo nel senso che a Pisacane sarà consegnato il piroscafo Cagliari, a condizione che la società di navigazione non ne risulti compromessa. Si pongono le basi per la commedia che si consumerà a bordo del natante, stucchevole precedente di quella, analoga, che si replicherà nel maggio 1860 sul Piemonte e sul Lombardo.
“Impadronitisi” del vapore, secondo un copione su cui sorvoliamo per non offendere l’intelligenza dei lettori, i sovversivi saranno raggiunti in alto mare da Rosolino Pilo con una goletta carica di armi; quindi andranno a Ponza dove libereranno i carcerati e li porteranno con sé a Sapri per dare inizio alla rivolta.
Accade però che la barca di Pilo finisce in una tempesta e l’equipaggio è costretto a gettare le armi a mare. La partenza è rimandata.
Carlo Pisacane, allora, con audacia (era un condannato per diserzione) si imbarca su un “postale” di linea e da Genova raggiunge Napoli, da cui è assente da oltre un decennio. Deve avvisare il comitato partenopeo del rinvio dell’impresa. Incontra Fanelli e gli altri e, dopo un momento di avvilimento, riprende entusiasmo. La spedizione partirà, secondo il calendario della Rubattino, nella nuova data del 25 giugno!
Da Genova, informa Fanelli che “il materiale” è stato “rimpiazzato”. Gli manda poi una lettera di istruzioni, che però arriverà a Napoli in ritardo. Scrive il suo Testamento politico e lo consegna alla giornalista inglese Jessie White. Il mazziniano Adriano Lemmi, denominato il “banchiere del risorgimento”, gli consegna ventiduemila lire. Come riferisce il Galzerano, «mille sterline sono raccolte a Londra da Emily Hawkes, diciassettemila franchi da Mazzini e a Genova sono raccolti altri milleduecento franchi da Casimiro De Lieto e da altri. Di denaro ne verrà consumato molto: quasi in ogni lettera a Fanelli si fa riferimento ad ingenti somme che gli vengono spedite.» La figura di De Lieto è emblematica: apparteneva a una famiglia di commercianti liberali e filofrancesi; fuggito a Londra dopo il fallimento dei moti del 1821, vi rimase oltre dieci anni; nel 1847 fu promotore di una rivolta in Calabria; condannato a morte e poi, su richiesta della moglie (figlia di un ricco commerciante genovese), graziato dal re Ferdinando II. Con l’amnistia concessa dallo stesso “tiranno”, nel gennaio 1848, riacquistò la libertà, mostrando la sua riconoscenza col partecipare attivamente alla sanguinosa giornata antimonarchica del 15 maggio 1848. Continuò da Reggio a ordire sommosse, finché non decise di emigrare, prima in Toscana, poi a Genova, sempre garantendo la sua partecipazione e il suo sostegno finanziario alla rivoluzione liberale.
La rete, che pullula di ricchissimi notabili, ha deciso che vale la pena di investire un po’ delle sue immense risorse in questa spedizione che, per quanto azzardata, potrà quanto meno costituire una prova generale del prossimo assalto e nel caso di malaugurato fallimento, infoltire il pantheon degli eroi della rivoluzione.
Lo spazio di un articolo non consente di ripercorrere nei dettagli la spedizione di Sapri. Mi limito ai fatti salienti e a qualche considerazione.
Il 25 giugno, al tramonto, l’imbarco di Genova è gremito. Tutti fingono di non conoscersi, ma fino a un certo punto, perché, “sfidando la polizia”, ma non certo i pericoli dell’impresa, è venuto a salutare i partenti un tale Giuseppe Mazzini. Enrichetta, da parte sua, doveva rimanere a Genova per essere utile nei moti che vi si prevedevano imminenti. Sorvolo, come preannunciato, sulla messinscena del dirottamento, accompagnato da una “nobile” dichiarazione con cui si scagiona l’equipaggio da ogni colpa. I protagonisti presenti sul vascello sono in tutto 25, di cui sette genovesi, tre anconetani, un orvietano, ecc.
Il piroscafo issa la bandiera rossa, segnale non di rivoluzione, ma di avaria alle macchine; altri – forse incoraggiati dalla poesia di Mercantini – dicono il tricolore, ma sarebbe stato stupido attirare l’attenzione. Poco plausibile – ma in ogni caso altamente significativo – quello che dichiara il console inglese a Napoli, ossia che fino a Ponza il piroscafo batté bandiera inglese. Nemmeno stavolta Rosolino Pilo riesce a portargli le armi, ma niente paura: nella stiva del Cagliari – che combinazione! – ce n’è un grosso carico.
Sbarcati a Ponza, i quattro che vanno ad aiutare la nave in avaria, fra cui il Comandante di porto, vengono presi in ostaggio. Pisacane allora sbarca, assale il posto di guardia e libera i detenuti. Per occupare la torre ove alloggiavano le truppe e le famiglie degli ufficiali, i suoi uomini uccidono un giovane tenente, Cesare Balsamo, che, facendo fino in fondo il suo dovere, si oppone agli invasori con la sciabola sguainata. A noi il compito di trarlo per sempre dall’anonimato in cui la storiografia liberale lo ha relegato, e segnalarlo all’amorevole ricordo della nostra gente.
La stragrande maggioranza dei detenuti liberati erano delinquenti comuni.
Ernesto Maria Pisacane, discendente di Carlo e grande conoscitore delle vicende del suo avo, ha affermato che la liberazione dei detenuti comuni fu un errore. Io ritengo che si colleghi a una strategia comune a tutte le rivoluzioni senza popolo. In mancanza di sostegno popolare – o meglio, avendo tra i propri sostenitori quasi esclusivamente nobili imborghesiti, possidenti, notabili, con l’aggiunta di chi dipende da loro e non può dire loro di no, mentre i ceti meno abbienti rimangono estranei od ostili ai progetti di rovesciamento dei regimi tradizionali – diventa indispensabile aprire le carceri. Solo così si può portare il gruppo dei rivoltosi a un’entità numerica tale da poter sfidare i difensori dello status quo. Garibaldi fece altrettanto e, anzi, si assicurò l’alleanza dei picciotti in Sicilia e della camorra a Napoli.
Sta di fatto che i carcerati fatti evadere erano molti di più dei 323 che salirono sul Cagliari. Si può immaginare che cosa possono aver fatto gli altri rimasti a Ponza, prima che le truppe delle Due Sicilie, dopo l’encomiabile viaggio in barca fatto da alcuni volenterosi a Gaeta per avvertire le autorità, ristabilissero l’ordine nell’isola.
Partiti da Ponza all’alba del 28 giugno, i sovversivi arrivano a Sapri nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Durante il viaggio Pisacane avrà avuto il suo daffare a indottrinare rapidamente i detenuti comuni, e a rincuorare tutti con false notizie circa le migliaia di insorgenti che li aspettavano per unirsi a loro (duemila già a Sapri!) e la certa insurrezione di Napoli.
Quando gli invasori sbarcano, dei duemila compagni di sommossa non c’è traccia. Anche perché da mesi lo stato maggiore rivoluzionario del Principato Citra era stato arrestato, compreso Giovanni Matina, l’ideatore del piano d’azione fatto proprio da Pisacane. Il grido lanciato nella notte, “L’Italia agli italiani!” non riceve nessuna risposta. Il Cagliari riparte e viene subito sequestrato dalla marina borbonica, che ovviamente arresta l’equipaggio.
Giunto nella sua terra, Carlo Pisacane, sebbene convinto che la proprietà sia un furto, va innanzitutto a cercare un ricco barone della zona, liberale fra i protagonisti e i finanziatori (con 1000 ducati d’oro) del 1848, Giovanni Gallotti, per ottenere denaro e aiuto. Ma quando bussa alla sua porta, portando con sé una guardia doganale fatta prigioniera, non lo trova, e i familiari gli dicono di non volere essere coinvolti nella sua azione. Nicotera e Falcone, intanto, con un’altra squadra di “patrioti”, vanno a cercare il prete Vincenzo Peluso per ucciderlo e vendicare, così, la morte di Costabile Carducci. Non avendolo trovato, si limitano ad appiccare il fuoco al portone e a prendere a colpi di scure le porte.
A Sapri, in un “immenso deserto di indifferenza”, trova solo le vane promesse di un altro esponente della famiglia Gallotti, il sacerdote Filomeno, fratello di Giovanni, e l’adesione del loro domestico Mansueto Brandi. Liberano tre carcerati e si recano a Torraca, preceduti dal Brandi che cerca in ogni modo di tranquillizzare la gente, intenta a festeggiare i Santi Pietro e Paolo alla presenza del vescovo. Pisacane legge in piazza un proclama, in cui, preso atto della freddezza della popolazione, per convincere la gente a rischiare la vita con lui prospetta un’inesistente adesione dell’esercito alla sua azione e l’imminente insorgenza prima delle province e poi della capitale. Aderisce solo un taverniere, tale Vincenzo Cioffi, che rifocilla i rivoluzionari. Viene abbattuto il palo del telegrafo, e intanto alcuni galeotti riprendono a fare il loro mestiere.
La banda prosegue per Padula; a Casalbuono Pisacane va a cercare non una famiglia di oppressi, ma un altro barone, De Stefano. A Casalbuono si verifica un terribile episodio: un seguace di Pisacane, Eusebio Bucci, prende del pane dalla commerciante Giulia Novellino pagandolo 16 anziché 36 grana. Pisacane dà la differenza e lo sottopone a un “consiglio di guerra”, che lo giudica colpevole e lo condanna alla fucilazione, immediatamente eseguita. Delle due l’una: o il racconto è infedele, nel senso che Bucci fece qualcosa di ben più grave che pagare meno del dovuto, il che conferma la pessima moralità di molti improvvisati sovversivi, oppure la reazione dei sodali di Pisacane fu di una crudeltà assolutamente sproporzionata. Quindi la versione “edificante” riportata dagli storici liberali fa acqua da tutte le parti.
A Padula, come al solito, si rivolgono al barone del luogo, Ferdinando Romano, che li ospita. Il paese, sguarnito di truppe, era deserto: gli uomini al lavoro nei campi e i galantuomini chiusi nelle case. Pisacane riesce a incontrare solo un gruppetto di “galantuomini” e qualche prete. Comunque la caserma viene assaltata, carte e registri vengono bruciati, le guardie urbane disarmate, stemmi e immagini del re distrutte.
Il mattino del 1° luglio arrivano i soldati delle Due Sicilie, al comando del colonnello Ghio. Al di là delle versioni agiografiche, che disperatamente cercano di saturare i colori per angelicare i rivoltosi e demonizzare i difensori, aggiungendo presunte frasi edificanti dei rivoluzionari o raccapriccianti particolari della repressione, sta di fatto che chi si introduce nel territorio di uno Stato per rovesciarne il governo non può aspettarsi di essere accolto col tappeto rosso.
E questo certamente non si aspettava Pisacane, che da militare era ben consapevole del rischio legato ad ogni azione di forza. Proprio lui che aveva riconosciuto al suo nemico Oudinot il diritto di bombardare Roma! Solo la faziosità ideologica può negare la legittimità dell’intervento di chi, come il tenente Balsamo a Ponza, è obbligato a difendere le istituzioni per le quali opera. E qui erano in gioco anche l’ordine e l’incolumità pubblica, in quanto coloro che sbarcavano, in armi, erano in gran parte delinquenti comuni, in molti casi desiderosi di tornare a operare nella loro provincia natìa, ed erano spesso conosciuti dalla gente, che ne aveva giustamente paura. E il fatto che la popolazione, rischiando la vita, aiuti la polizia a debellare una banda armata composta in gran parte da uomini con l’abito da reclusi, non può che essere lodato da chi non è affetto da cieco pregiudizio. Se vi sono stati episodi di ferocia, sono senz’altro da condannare, ma l’essenza dell’evento è questa.
Sulle circostanze in cui Pisacane ha trovato la morte le versioni sono molte e l’individuazione di quella vera trascende di molto le finalità di questo articolo.
Le raffigurazioni apologetiche della morte di Pisacane lo vedono nell’atto di soccombere, armato, a popolani e gendarmi; eppure si afferma che egli e i suoi fossero, se non disarmati, già praticamente inermi. Tuttavia non risulta che si fossero arresi, né che avessero deposto le armi. La tesi del suicidio di Pisacane, pure prospettata (anche dall’Enciclopedia Treccani), è oggi minoritaria. E poco si armonizza con la sua indole combattiva che abbiamo imparato a conoscere.
La versione del sotto-capo urbano Sabino Laveglia nel suo rapporto sui fatti di Sanza è che i sovversivi avanzavano sparando. La sua testimonianza è poco utile, essendo egli fortemente interessato a sopravvalutare la pericolosità dei propri avversari.
La versione maggiormente celebrativa recita che alle prime fucilate sessanta rivoltosi si danno a fuga precipitosa e sventolano pezze bianche in segno di resa, mentre Nicotera cerca invano di farli desistere. E che, viceversa, la trentina di uomini rimasti con Pisacane avrebbe voluto reagire all’assalto dei paesani e dei gendarmi, ma qui interviene la frase esemplare attribuita a Carlo in punto di morte: «Non si versa mai sangue fraterno!».
Quand’anche ci si volesse attenere a questa versione, sembrerebbe molto improbabile che le parole di Pisacane, ammesso che siano state pronunciate, avessero indotto tutti i compagni a dare chiari segni di resa. Ed è difficile fermare una folla inferocita ed eccitata nel momento dello scontro.
In verità, se dell’attendibilità di Laveglia si può legittimamente dubitare, altrettanto inaffidabile è la testimonianza del giudice Gaetano Fischetti, il quale avalla la tesi dell’assassinio di persone inoffensive che si erano già arrese: egli, infatti, racconta i fatti in pieno regime sabaudo, e ci sarebbe voluto un coraggio da leone per contraddire la versione data da Nicotera al processo. Invece la santificazione di Pisacane è molto opportuna per un funzionario che ha fatto carriera nel regime borbonico e manifestato compiacimento per l’esito dello scontro di Padula, e ora deve riconquistare la fiducia dei nuovi governanti.
Altre versioni circolano dell’uccisione di Pisacane. Come quella del gendarme Gaetano Enter, il quale disse di averlo personalmente colpito a morte in risposta a due colpi di fucile sparatigli dal noto rivoluzionario. Un’altra ricostruzione dei fatti è stata tramandata oralmente nella zona, differenziandosene solo nell’individuazione dell’uccisore.
In realtà, nessuno sa con precisione come veramente siano andate le cose, almeno nell’ultima ora dell’esistenza terrena di Carlo Pisacane.
Sappiamo che un gruppo di rivoluzionari sbarcati nel territorio del Regno, commettendo una serie di violenze e uccidendo un giovane ufficiale, hanno fatto uscire dal carcere di Ponza moltissimi detenuti, in massima parte comuni, e con circa trecento di essi, unitisi al gruppetto dei liberali, si sono portati in armi sulla costa del Principato Citra, col proposito di scatenarvi una rivolta. Sappiamo anche che presso Sanza un gruppo di gendarmi, capitanati da Sabino Laveglia, si opposero allo sbarco come il dovere loro imponeva, ottenendo l’appoggio di parte della popolazione. Sebbene la banda dei rivoltosi si presentasse più debole, non c’è dubbio che lo scontro rappresentasse comunque un rischio per chi aveva scelto di parteciparvi, anche da parte realista. Quindi bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che i gendarmi e i popolani ebbero del coraggio. Se poi nell’azione vi furono degli eccessi, vanno certo condannati; come del resto bisogna condannare il massacro di inermi prigionieri borbonici consumato dai liberali repubblicani a Velletri.
Di certo, all’arrivo di Garibaldi in zona, tre anni dopo, Sabino Laveglia, il fratello Domenico, il farmacista Filippo Greco Quintana e Giuseppe Citera, furono presi e fucilati da un “liberale”, tale Cristoforo Ferrara di San Biase, frazione di Ceraso. Incredibilmente, nel raccontare l’evento, c’è chi parla di “processo” fatto dallo stesso boia. Il che fa capire perfettamente quale concetto di giustizia abbiano certi esaltatori del risorgimento.
Io penso che Carlo Pisacane, il quale inneggiava all’uccisione immediata, per accoltellamento, di ogni appartenente al partito borbonico, e, ovviamente, dei poliziotti, non avrebbe mai preteso né pensato di non trovare opposizione armata. Era un militare serio e non avrebbe accettato versioni dolciastre e strumentali della sua estrema vicenda terrena, che fu sbocco coerente del suo pensiero.
Ma su questo rifletteremo prossimamente.
(continua)