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Quando i Borbone difendevano gli operai

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di Ferdinando Corradini – Rubrica “La voce di Sud e Civiltà”
Le vicende oggetto del presente intervento hanno avuto come teatro Arpino e Isola del Liri, centri che, dal 1927, fanno parte della provincia di Frosinone e, quindi, del Lazio, ma che, fino al 1926 sono stati ricompresi nella provincia di Terra di Lavoro e fino al 1860 nel Regno delle Due Sicilie.
Quando i Borbone difendevano gli operai

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            Arpino poteva vantare una fiorente industria di produzione di panni di lana, che affondava le sue origini nella Repubblica romana: sappiamo, infatti, che anche il padre di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) ne produceva.

            La dinastia borbonica favorì tale industria in vari modi. In primo luogo con le commesse: ad Arpino si produceva il panno con cui si confezionavano le divise dei militari, in particolare quello “color rubbio”.

            Inoltre, accedendo a una richiesta avanzata dagli “industrianti” arpinati, nel 1794 Ferdinando IV avviò la costruzione di una strada rotabile che collegava Arpino, Sora e Isola del Liri con il porto di Napoli.  Tale strada, che costituisce la prima grande infrastruttura realizzata nella Valle del Liri successivamente alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, fu ultimata nel 1823, con la posa a dimora delle colonnette miliari indicanti la distanza da Napoli, molte delle quali ancora oggi presenti in situ.

            Da un monitoraggio eseguito dall’economista Giuseppe Maria Galanti sul finire del Settecento risultò che Arpino occupava il terzo posto  nella produzione di panni, venendo dopo San Cipriano Picentino (Salerno) e Palena (Chieti) e ciò nonostante che i suoi panni fossero di qualità superiore a quella dei panni prodotti negli altri due centri. Nel 1850, qualche decennio dopo la costruzione della detta strada, Arpino era balzata al primo posto: vi si producevano i 2/3 dei panni utilizzati nel Regno. Tale industria dava lavoro a settemila operai in Arpino e a altri quattromilacinquecento nel suo circondario.

            Delle particolari attenzioni dedicate dalla Dinastia borbonica alla città di Cicerone è rimasta testimonianza in numerose iscrizioni lapidarie, che ricordano la presenza di Carlo e dei due Ferdinando.

            I lanifici di Arpino godevano, inoltre, del protezionismo doganale, di cui, peraltro, fruivano anche tutti gli altri lanifici del Regno. Tale protezionismo venne fortemente attenuato fin dall’ottobre del 1860, mettendo in crisi tutti i lanifici del Regno, non esclusi quelli di Arpino. Il 25 maggio 1861, al Parlamento di Torino, “fra la generale incomprensione e ostilità” fece sentire la sua voce di protesta l’industriale laniero arpinate, on. Giuseppe Polsinelli, che, rivolto al Cavour, urlò: “Sa il signor presidente del consiglio i dolori e le perdite che hanno subite gl’industriali delle province meridionali? Sa il signor presidente del consiglio quante centinaia di migliaia di persone sono a languire dalla fame per quelle modificazioni?” Davanti a questo “grido di dolore”, il Cavour, senza scomporsi, replicò che, a quel che lui sapeva, da quando era stata introdotta la nuova tariffa doganale, i traffici al porto di Genova erano aumentati. Nel giro di qualche anno, uno dopo l’altro, chiusero tutti i lanifici arpinati. Ad Arpino da qualche anno è stato aperto un Museo dell’Arte della Lana. (1)

            La presenza di tale industria, com’era naturale che fosse, generò dei conflitti sociali. Interessante è analizzare in che modo le autorità borboniche intervenissero in tali conflitti.

            Il 31 maggio e il 1° giugno 1837 a Arpino ebbe luogo una sommossa operaia per protestare contro l’arrivo dalla Francia nel lanificio Carfagna di alcune macchine. I “lavorieri” temevano che l’arrivo delle stesse potesse provocare una riduzione dell’occupazione. E’ questo il primo caso di luddismo verificatosi nel Regno delle Due Sicilie, forse il primo verificatosi in Italia, che ci dice come l’industria regnicola fosse all’avanguardia nella meccanizzazione.

            La sera del 31 maggio la forza pubblica trasse in arresto dodici dimostranti “che furono condotti alla presenza del Regio Giudice, il quale credé bene di farli rilasciare in libertà”, come è scritto nel rapporto, datato 9 giugno 1837, del capitano Antonio de Luca, comandante della 3° compagnia del 5° battaglione della Gendarmeria Reale, di stanza a San Germano, odierna Cassino.

            La mattina del successivo 1° giugno si formò un altro assembramento di operai, che furono avvicinati dal Comandante di Brigata e dallo stesso Regio Giudice, il quale “procurò con buone maniere di persuaderli a ritirarsi nelle loro case, promettendoli di volersi adoperare a di loro favore presso le autorità superiori”.

            Come si vede, in entrambe le circostanze, il Regio Giudice tiene un comportamento molto moderato: nella prima concede la libertà agli operai anziché mandarli in carcere, come, peraltro, auspicava il capitano Antonio de Luca; nella seconda, in un periodo in cui in nessuna parte d’Europa esistevano rappresentanze sindacali, assume addirittura il ruolo di “sindacalista”.

            Non meno interessante è la relazione che l’Intendente di Terra di Lavoro, sedente a Caserta, invia a Napoli al Ministro di Polizia l’11 dicembre 1846. Nella stessa si fa riferimento ad alcuni episodi posti in essere da Felice e Gregorio Viscogliosi, proprietari di un lanificio in Arpino, nei confronti di alcuni loro dipendenti. “A reprimere tali atti disumani io ho disposto che il Sottointendente di Sora, il quale me ne riferiva i particolari, chiamasse in quella residenza i Viscogliosi e proporzionando loro una severa ammonizione li sottoponesse ad obbligo e pena di arresto di non più inveire contro i loro lavorieri”.
Quando i Borbone difendevano gli operai

            Come si vede, l’Intendente fa “ammonire” i datori di lavoro, minacciando di farli arrestare qualora perseverino nella loro condotta antigiuridica. Ma il funzionario va oltre. Suggerisce al Ministro di Polizia di voler adottare delle misure di carattere generale nei confronti dei proprietari delle fabbriche: “Oltre di tale esempio troverei regolare che generalmente si facesse sentire a’ proprietari di astenersi dal maltrattare con fatti gli operai, potendo essi in caso di mancamento licenziarli dal loro servigio, ed anche adire nelle circostanze momentose il potere giudiziario, cui dalla legge è devoluta la punizione del delitto, senza più arrogarsi una facoltà che non solo non è ad essi attribuita, ma che la legge stessa riconosce criminosa”. Molto bello questo richiamo alla legalità operato dall’Intendente: per la cronaca va detto che gli operai si erano appropriati di una piccola quantità di lana.

            L’Intendente, che, ricordiamolo, era il capo politico della provincia, va ancora oltre: “Crederei poi di aggiungere a ciò delle quotidiane visite dell’autorità di polizia nei rispettivi stabilimenti per assicurarsi che sia cessato l’abuso, contro del quale a giusto titolo si reclama”…

            Ignoriamo se il Ministro di Polizia abbia disposto le “quotidiane visite” auspicate dall’Intendente nelle fabbriche. Se ciò avesse fatto, dovremmo probabilmente registrare un altro primato del Regno delle Due Sicilie: quello dell’istituzione degli Ispettori del Lavoro, ancora oggi poco numerosi e, quindi, poco presenti sui luoghi di lavoro.

            Non meno interessante è un altro episodio di luddismo, verificatosi a Isola del Liri nel 1852, nel lanificio degli arpinati Angelo e Giuseppe Polsinelli, il secondo dei quali, come già visto, sarà il primo deputato del collegio di Sora al Parlamento di Torino.  Essi trasferirono gran parte della produzione di panni di lana da Arpino a Isola del Liri, in quanto, in quest’ultima città, il fiume Liri forma delle cascate, che, in un periodo in cui non c’era l’energia elettrica, il cui sfruttamento verrà introdotto soltanto alla fine dell’Ottocento, fornivano la forza motrice necessaria ad azionare le macchine.

            Come abbiamo già visto, già nel 1837, ad Arpino, gli operai avevano tentato di opporsi alla introduzione di una macchina proveniente dalla Francia nel lanificio Carfagna. Il 28 maggio 1852, però, a Isola del Liri, portarono a compimento il loro disegno, gettando nel Liri la macchina che era stata introdotta lo stesso giorno nel lanificio Polsinelli.  In conseguenza di ciò, la proprietà dello stabilimento dispose il licenziamento di “200 tra uomini e donne” e la serrata della fabbrica. Gli operai gridando: “Giustizia giustizia”, si erano recati al casino del Segretario Generale della Prefettura di polizia a reclamare contro il loro licenziamento.

            Le indagini sul grave episodio furono svolte personalmente dal Sottointendente di Sora, il quale appurò che già da qualche giorno “un male umore preesisteva tra i lavoratori della fabbrica suddetta, e precise fra le donne”, da quando il giovane figlio del direttore della fabbrica, a nome Alessandro Dephancons, si permetteva di insultare l’onore delle stesse, dicendo: “tra breve verrà la macchina, l’opera vostra sarà inutile ed avrò la vostra carne a tre grana il rotolo”.

            Il Sottointendente intervenne sui proprietari ed ottenne che la fabbrica fosse riaperta il successivo 29 maggio, colla riassunzione di tutti coloro che erano stati licenziati. Nel prosieguo delle indagini vennero identificati quattordici “promotori ed esecutori principali del malfatto”, che, “nella veduta di dare un esempio al pubblico scandalizzato”, furono tratti in arresto il 12 giugno e rimessi in libertà il 24 dello stesso mese. Fu inoltre arrestato il Dephancons, che, come visto, aveva provocato gli operai; lo stesso era già stato licenziato dai Polsinelli. (2)

  •  V. Ferdinando Corradini, Le industrie nell’Alta Terra di Lavoro prima e dopo l’unificazione, in Studi Cassinati, anno VIII – n. 1 (Gennaio – Marzo 2008), pagg. 14-23, con bibliografia, in www.studicassinati.it
  • I documenti citati sono riportati in appendice al pregevole saggio di Silvio de Majo, L’industria meridionale preunitaria tra protezionismo statale e fluttuazioni cicliche: i lanifici della Valle del Liri (1806-1860), in Carmine Cimmino (a cura di), Economia e Società nella Valle del Liri nel sec. XIX. L’industria laniera, Atti del convegno di Arpino, 3/5 ottobre 1981. Rivista Storica di Terra di Lavoro, anni 1982/1986 – nn. 13/19, Caserta 1986.
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