Di Giuseppe Melchionda – Rubrica “L’Alfiere“
(La strage sabauda di Auletta)
Solo un’accurata e tenace ricerca documentale e archivistica, immune da un’acritica adesione alle versioni “ufficiali” accreditate dal vincitore e attenta alle peculiarità territoriali, può fare luce sulla reale portata dell’insorgenza armata contro l’occupazione piemontese dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Infatti quando si mettono a fuoco le realtà locali, ricostruendone le dinamiche durante e dopo il trauma dell’invasione, si giunge a risultati che dimostrano la vastità e l’intensità della partecipazione popolare alla lotta armata.
È il caso delle vicende che agitarono il territorio del Cilento e del Vallo di Diano nel 1861.
Alla fine di luglio di quell’anno foltissime schiere di seguaci di Francesco II conquistarono Auletta, Pertosa e Salvitelle. Ciò si evidenzia anche dai rapporti delle autorità militari sabaude, scarni nel linguaggio ma chiari nel significato. A Salvitelle «la sera del 27 luglio 1861 da un ammutinamento di popolo fu gridato “Abbasso il Sindaco, lo dobbiamo fare a pezzi come quello di Venosa, Viva Francesco II. La mattina seguente i sediziosi… con le coccarde rosse, ritornarono ingrossati… Tutto il popolo è di sentimento contrario all’attuale governo, compresa l’intera Guardia nazionale che non si sarebbe prestata ad ubbidire… La reazione scoppiò la notte seguente verso le ore due…, furono assaltate la casa del sindaco e del comandante della Guardia Nazionale; con minacce di morte obbligarono a dar loro tutte le armi e munizioni… con scassinazione delle porte a colpi di scure… dicendo di essere tornato Francesco Il e già una colonna di 12.000 persone era entrata in Auletta».
A Pertosa, sin dalla metà di luglio, i borbonici non davano tregua ai liberali con minacce di morte e scontri a fuoco; tra gli arrestati Nicola Castaldi. Francesco D’Antonio di Petína e il sacerdote del luogo Giuseppe Di Marco.
Ad Auletta operava un gruppo di liberali, attivo da prima della spedizione garibaldina, che era in diretto contatto con il Comitato di Azione di Napoli; già in precedenza si erano verificati segni premonitori delle violenze che di li a poco si sarebbero verificate. Nell’aprile del 1860 Filomeno e Luigi Cappetti, originari di Giffoni, preannunciavano come prossimo l’arrivo di Garibaldi e furono arrestati per cospirazione avente per oggetto distruggere e cambiare Governo ed armarsi contro l’Autorità Reale. Secondo l’accusa, Filomeno Cappetti cercava di smaltire biglietti sediziosi firmati da Garibaldi, contenenti prontezze di fucili e di munizioni mediante il prezzo di carlini 6 e spiegava che quando le persone sarebbero state chiamate avrebbero avuto grana 40 al giorno. Nella primavera del 1861 da tempo si erano diffuse voci allarmanti. «Il numero dei ribelli si faceva estendere a più migliaia… Stavano nel bosco denominato Lontrano… Allora incominciò la paura di quei pochi liberali e la gioia dei reazionari; l’esaltazione e l’insubordinazione del popolofaceva presagire prossima la reazione… Le famiglie liberali si allontanavano dal paese… Il 28 luglio… tra il tripudio della maggior parte della popolazione entrarono i rivoltosi al grido Viva Francesco II, morte ai liberali; distrussero gli stemmi sabaudi, riposero quelli borbonici e proclamarono un nuovo Governo Provvisorio. Sul campanile della Chiesa Madre fu di nuovo issata la bandiera del Regno delle Due Sicilie. Tra illuminazioni e baldorie gli insorti si recarono nella cancelleria comunale bruciando carte e registri, mentre veniva saccheggiata anche la casa del sindaco Antonio Guerra. La maggior parte di questa popolazione, affermava Gennaro Mari, capo della Guardia Mobile, nutre delle simpatie per i ribelli… Don Alfonso Carusi veniva eletto da costoro per loro tenente colonnello». Nel contempo il comandante della Guardia Nazionale di Pertosa Giuseppe Oliva chiedeva aiuto a Napoli. Da qui il VI Comando Militare faceva muovere un battaglione di militi e una legione di mercenari ungheresi. Il 28 e il 29 luglio (1861) furono giorni di grande mobilitazione e di vendette politiche in Auletta; all’alba del 30 luglio il paese venne circondato dalle truppe governative mentre gran parte degli insorti già si era ritirata sui vicini monti. Dalla contrada Piano, lasciata indifesa, l’esercito piemontese entrò nell’abitato. I militi, divisi in plotoni, scatenarono una feroce caccia all’uomo. Uno scenario apocalittico fu quello di Auletta: nei vicoli, nelle strade, sulle porte delle case giacevano a terra decine e decine di morti, tra le urla dei feriti e la disperazione delle donne, con negli occhi il terrore della tragedia e degli altri morti che ci sarebbero stati. Nemmeno i luoghi sacri furono risparmiati: furono uccisi 4 sacerdoti, tra i quali Giuseppe Pucciarelli e l’arciprete Nicola Amato sul piazzale della Chiesa Madre, mentre in un’altra chiesa furono letteralmente scannati con la baionetta Vittorio Amorosi e altri cittadini inermi. Tra i catturati uno dei principali ispiratori della rivolta, don Fiore Salatino, il quale spesso si era recato in precedenza a Napoli a prendere notizie e che avrebbe dovuto condurre in loco un generale alla testa di 6.000 uomini.
Il numero delle vittime? Impossibile stabilirlo. Dal rapporto del Comando Generale dei Carabinieri Reali nelle Provincie Napoletane al Dicastero dell’Interno e Polizia è scritto che “i morti fucilati nel fatto del 30 luglio ad Auletta sono 60 circa”. Dal successivo rapporto del 1° agosto viene confermato il numero delle vittime e «di molti altri fucilati perché presi colle armi alla mano». A ristabilire l’ordine degli invasori furono impiegati una compagnia del 40° fanteria comandata dal capitano Covana, i bersaglieri, una quarantina di guardie nazionali, truppe ungheresi e carabinieri condotti dal Luogotenente di Sala Dell’Avena. Questi ultimi giunsero a battaglia quasi finita e furono adibiti in operazioni di rastrellamento fuori l’abitato.
(La strage sabauda di Auletta)
La feroce repressione e soprattutto la legge Pica esaurirono gradualmente anche nel Vallo di Diano la lotta guerrigliera contro il nuovo Stato unitario per riportare sul trono Francesco II. Anche in queste terre lo spegnersi dell’insurrezione aprì la strada alla tragedia dell’emigrazione.