di Edoardo Vitale, Rubrica settimanale: l’Alfiere
Il sole splendeva su una terra che, come diceva il grande Giacinto De’ Sivo, era il sorriso del Signore. Le durezze della vita le accettavamo confidando nella Provvidenza. E nelle premure di un Re il cui primo pensiero era la felicità dei suoi popoli.
Da molti anni, però, facevamo un brutto sogno. Stormi di rapaci attaccavano i nostri campi. Gente spietata ci rubava la terra. Persone maligne dicevano male del nostro Re, anche quelle che da lui erano state perdonate e che gli avevano giurato fedeltà. Disprezzavano la nostra fede, la chiamavano superstizione.
Al risveglio, tornava ad avvolgerci lo splendore della nostra terra e le ombre della notte svanivano. Non completamente, però, perché sapevamo che veramente c’era chi non voleva bene a noi del popolo. Specialmente nei Comuni, trovavano spesso il modo di arricchirsi defraudando i diritti della gente onesta. E poche volte gli incaricati del Re riuscivano a fare giustizia.
Ma non avremmo mai immaginato che tutto quel mondo sarebbe presto scomparso. Quando vedevamo un mare di popolo entusiasta e di soldati in splendida uniforme salutare il re in Largo di Palazzo , quando la bianca bandiera gigliata sventolava fiera su un nuovo vascello varato a Castellammare ringraziavamo Dio per la sorte di averci fatto vivere in un paese così bello e rispettato.
Eravamo convinti che questa meravigliosa sintonia fra Re e popolo ci avrebbe accompagnato per molte generazioni.
Invece, in un mattino di maggio di 160 anni fa, l’incubo vero lo vivemmo appena aprimmo gli occhi.
La nostra terra calpestata da gente straniera che parlava un’altra lingua e che ci disprezzava. Il nostro Re e Padre scacciato dal Regno. I nostri nemici di sempre in trionfo insieme con gli invasori. Calunnie, inganni e menzogne usate come arma di sopraffazione.
Abbiamo allora reagito. E anche quando dalle autorità ci giungevano segnali deboli e ambigui, il nostro dovere lo abbiamo fatto. Con la divisa o senza, abbiamo preso le armi per difendere la nostra Fede, il nostro Re, la nostra Patria, la nostra Terra, il nostro Futuro, la nostra Dignità. A Gaeta, a Messina, a Civitella, a Melfi, a Tagliacozzo, a Palermo e in mille altri luoghi il valore dei Napolitani e dei Siciliani si è visto.
Chi non era in grado di combattere, aiutava come poteva. Abbiamo resistito almeno dieci anni, contro un’armata di almeno 120 uomini, più 80.000 rinnegati della Guardia Nazionale, e un numero imprecisato di mercenari esteri. Non sono mancati nemmeno i cacciatori di taglie.
Fu la nostra Catasfrofe, quella che stiamo pagando ancora oggi.
Come fu possibile che non ci si rendesse conto della cascata vertiginosa che ci aspettava dietro la curva del fiume della storia, apparentemente placido e lento? Nessuno seppe vedere, o interpretare, certi ruggiti sinistri delle acque, nessuno ebbe un udito così acuto da immaginare la voragine che stava per inghiottire nostri popoli? Forse qualcuno capì, ma quando ormai era tutto perduto, fuorché l’onore.
Aveva fatto eccezione il Principe di Canosa, qualche decennio prima, ma erano state le stesse potenze conservatrici, a loro volta votate al suicidio, a imporne la cacciata.
Al terribile disastro del 1860, seguirono i mostruosi flagelli del massacro collettivo legalizzato, della pulizia etnica, della desertificazione produttiva, dell’emigrazione forzata, della piemontesizzazione amministrativa sfrenata e cieca, dell’osceno furto delle risorse del Regno. Si potrebbe continuare a lungo, finendo, però, con il peggiore dei mali, la distruzione del nostro senso di appartenenza a una comunità.
Accade così, che quanti di noi, senza essere soldati di professione, combatterono contro gli invasori di allora, vengano calunniati, sottovalutati, rinnegati, ancora oggi, proprio da coloro, per la cui dignità si batterono.
Il brigantaggio è tema cruciale perché fu la reazione di un popolo, non la condotta di chi aveva l’obbligo professionale di battersi. Mentre l’ammirazione per una antica dinastia ha scarse ripercussioni politiche, presentandosi fatalmente come inattuale (a maggior ragione quando i loro attuali esponenti declinano ogni rappresentatività di popolo), le insorgenze popolari, se ben raccontate, possono suscitare sentimenti di identificazione nei loro protagonisti: quindi spingere un popolo a riacquistare coscienza di sé, a riprendere in mano il proprio destino.
Quindi, per i nostri avversari, è indispensabile minimizzare quella insorgenza, impedire ogni forma di immedesimazione. E lo si fa obbedendo all’imposizione risorgimentale di considerare i cosiddetti Briganti, ossia i guerriglieri delle Due Sicilie, come gente scarsamente umana posseduta da credenze superate, di costumi rozzi e indole violenta, pertanto giustamente spazzata via dalla storia. La cosa comprensibile, ma inaccettabile, è che questa imposizione venga supinamente accettata proprio dai Napolitani e dai Siciliani di oggi, discendenti di quei guerriglieri che si batterono anche per la loro dignità.
Per questo bisogna ridare umanità a quei nostri fratelli, “colorare” quelle vecchie fotografie, non per alterare la realtà, ma, al contrario, per rendere più autentica e piena la nostra comprensione di quanto è realmente accaduto in quegli anni; terribili, ma migliori di questi: perché almeno si poteva morire da uomini liberi.
Sono passati 160, assurdi anni, da quando ci svegliammo nella gabbia del colonialismo. La nostra reazione alla sconfitta avrebbe dovuto essere quella di capire, capire, capire. Come può accadere che un Regno forte e amato dai suoi popoli venga annichilito in un batter d’occhio e poi (quasi) cancellato dalla coscienza di chi avrebbe dovuto continuare a viverci?
Abbiamo perso anni interminabili, decenni grigi in cui i nostri pensieri sono stati schiacciati o azzoppati; e quando osavano camminare lo facevano nei solchi angusti tracciati dai padroni delle notizie e delle accademie, gente la cui confidenza con la menzogna è proverbiale (pochi giorni prima di invadere con le sue truppe le Due Sicilie, Vittorio Emanuele II rassicurava Francesco II di essere solidale con lui).
Ci hanno convinto delle loro falsità, ci hanno resi complici di un’enorme delitto: la cancellazione della memoria di tanti coraggiosi, la negazione del loro sacrificio, la calunnia infame su chi non si poteva difendere, l’offesa continua e istituzionalizzata contro tutti gli abitanti delle Due Sicilie, assurta al razzismo di stato di un Cesare Lombroso.
Per più di un secolo quasi tutti si sono imposti di dimenticare o hanno finto di farlo. Hanno perso la guerra delle parole, anzi hanno rinunciato a combatterla, rifugiandosi spesso nel silenzio. Quando, per l’opera audace e ostinata di pochi, molte verità hanno cominciato ad affiorare, sembrava giunto il momento di prendere l’iniziativa, ma la riscossa non è partita.
Perché? Anche questa è una domanda a cui dobbiamo dare una risposta. Che poi è forse la stessa per entrambi i quesiti.
Perché abbiamo adoperato le categorie mentali e ideologiche di chi ha interesse a che il Sud resti una colonia di sfruttamento. Le loro scale di valori. Abbiamo assecondato ogni sorta di pregiudizio, senza capire che se si è uomini liberi, bisogna esserlo su qualunque argomento, e a 360 gradi. Abbiamo voluto strizzare l’occhio a ogni sorta di interlocutore, facendo citazioni scelte fra gli autori graditi al pensiero dominante. Abbiamo limitato i nostri studi e i nostri interessi al periodo borbonico e al territorio delle Due Sicilie, accreditando l’idea che uomini e donne del Sud non debbano seguire ciò che succede nel mondo e in Italia e non debbano conoscere tutta la propria – gloriosa ed entusiasmante – storia. Insomma, abbiamo chinato il capo per indossare il giogo della subordinazione. L’eterno giogo dei “meridionali”: non disturbare il manovratore.
Quasi inebriandoci dell’abiezione in cui vogliono vederci sguazzare, abbiamo preso il vezzo di adoperare per noi stessi i vergognosi termini con cui si suole designarci al nord. Si stampano libri e magliette in cui si “sdogana” l’orribile appellativo di “terrone”, che ha procurato sofferenze e accompagnato l’emarginazione di generazioni di nostri compatrioti. Alcuni arrivano ad autodefinirsi “sudici”. Una presunta autoironia che suscita solo compatimento e dileggio.
Continuiamo ad assecondare i pregiudizi altrui, specie “nordici”, rappresentandoci come sguaiati mattacchioni, incapaci di serietà e dignità. Dimenticando che per millenni abbiamo navigato nella grandezza, impossibile senza queste qualità. Dice giustamente il filosofo Aldo Masullo che, anziché rappresentarci, faremmo bene a “presentarci”. Ma abbiamo perso il ricordo di quello che siamo.
Per rincorrere un briciolo di visibilità, concediamo credito a chi trova spazio sui mezzi di informazione. Spazio che gli viene concesso solo in quanto funzionale ai disegni del potere. E magari paghiamo uno squallido gettone a “professionisti del meridionalismo”, laddove una comunità di gente vera dovrebbe prendere le distanze da chi difende una causa facendosi pagare.
Quanto tempo è passato da quando difendevamo con fierezza e abnegazione la libertà della nostra Patria! E quanto ne abbiamo perso! Oggi però su parecchie cose importanti cominciamo ad avere le idee chiare.
La nostra libertà è finita perché abbiamo lasciato prevalere le forze anticomunitarie, i ceti parassitari nemici del popolo e delle sue tradizioni, che hanno sfruttato l’assolutismo come ariete per abbattere le difese della società tradizionale. Perché in nome di un malinteso paternalismo bonario, i Borbone prima diedero spazio a settari e speculatori, poi, dopo che questi li tradirono nel peggiore dei modi, non solo li perdonarono, ma in molti casi li collocarono nei gangli più importanti dell’amministrazione civile e militare, da dove costoro ordirono con meticolosità piemontese il piano per spodestare il Sovrano e azzerare i diritti del popolo, di cui questi era garante. Un “partito tradizionalista”, di cui Canosa avrebbe potuto essere il vertice naturale, fu stroncato sul nascere, e si cominciò già allora a “giocare di rimessa”, lasciando l’iniziativa ai molti e potenti nemici delle Due Sicilie.
Allora, per uscire dalla grotta profonda, angusta e buia in cui ci siamo cacciati, la strada è una sola. Addestrare un nuovo militante napolitano e siciliano. Serio e determinato, cauto e risoluto, paziente e coraggioso. Che sappia difendere la tradizione evitando tutte le trappole del Pensiero Unico. Che sia preciso nelle analisi e intransigente nelle conclusioni. Che sappia individuare i tragici e insidiosi errori, nostri e altrui, legati soprattutto alle ideologie nate dalla rivoluzione francese; senza superbia, ma con la semplicità e il buon senso di chi vuole tornare a un mondo a misura d’uomo. Che sappia comprendere le ragioni di tutti senza cedere alla rabbia, ma senza mai deflettere dal suo obiettivo. Che sappia ricreare quello spirito comunitario, contro cui operano tutte quelle forze che vogliono ridurre la bellezza delle diversità a un unico, grigio ammasso di schiavi, da manipolare e sfruttare. Che sappia trovare e stimolare, nel mondo, quelle solidarietà e quelle alleanze che possano sbarrare la strada ai nemici di tutti i popoli. Che sia una roccia per tutti quelli che vacillano per insicurezza o per debolezza, per coloro che soffrono e hanno l’urgenza di ridare senso alla loro vita.
Quello di cui abbiamo bisogno sono i soldati che non abbiamo mai avuto. Addestrati nel segno dell’amore, perché l’odio non appartiene al retaggio dei nostri padri. Sereni e dignitosi, rispettosi e delicati, severi con sé stessi prima che con gli altri, esempio per tutti. Lontani dal fanatismo e dal settarismo, dal conformismo e dall’opportunismo. Inclassificabili per i moderni sistemi di controllo, che devono saper eludere quando occorre.
Soldati del sole, insomma, perché dalla forza e dalla chiarezza dell’astro che rende splendenti le nostre terre traggono ispirazione per la loro condotta di vita. Soldati del sole, perché i loro cuori non aspettano altro che l’alba del giorno in cui il sole rivedrà la nostra Patria radiosa di gioia e di libertà.