Rubrica a cura di Enrico Fagnano: Il Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia
Dopo l’annessione cominciò un trasferimento di risorse verso il Nord, che fu massiccio e riguardò tutti i settori. A questo proposito Antonio Gramsci è molto esplicito, quando nel decimo dei Quaderni dal Carcere (Einaudi, 1948-51, e poi edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975) scrive: “Le masse popolari del nord non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale.”
Le tappe fondamentali di questo processo furono la vendita dei terreni demaniali, iniziata nel 1862, la vendita dei terreni ecclesiastici, iniziata nel 1867, la legge del 1866 sul corso forzoso, la legge del 1887 sui dazi doganali e infine il modo in cui vennero utilizzate le rimesse degli emigrati. Per avere un quadro generale della situazione, esaminiamo adesso brevemente questi episodi, ma per comprendere i reali danni di volta in volta arrecati al Mezzogiorno, sarà necessario tornare a parlarne analiticamente in prossime puntate della nostra rubrica.
I terreni demaniali, che erano esclusivamente nel Sud, e i terreni della Chiesa, che erano quasi esclusivamente nel Sud, fruttarono rispettivamente 300 e 620 milioni, che furono utilizzati in parte per fronteggiare l’enorme debito pubblico del nuovo Stato, ereditato dal Regno di Sardegna, e in parte per finanziare gli sventramenti di Firenze e di Roma, nel 1870 diventata capitale d’Italia.
Enormi vantaggi, poi, furono assicurati all’economia piemontese con la legge sul corso forzoso del 1866, con la quale si stabilì che le vecchie monete d’oro e d’argento del Banco di Napoli (pari a ben 420 milioni sui 443 milioni del circolante totale dell’istituto) potevano essere cambiate nelle nuove monete italiane di carta solo dalla torinese Banca Nazionale, garantendo così alla stessa un forte incremento delle proprie riserve di metallo prezioso e quindi di liquidità. La situazione nel Sud, però, divenne realmente insostenibile dopo il 1887, quando venne approvata una legge che introduceva pesanti dazi sui prodotti industriali provenienti dall’estero. Grazie alle nuove tariffe protezionistiche le imprese italiane (del Nord) non dovevano più sopportare la concorrenza straniera, ma la conseguenza fu che l’agricoltura meridionale perse la maggior parte dei sui mercati. Infatti gli Stati che importavano i prodotti delle terre del Sud per ritorsione applicarono analoghi, pesanti, dazi sulle merci italiane.
Ridotti a quel punto senza più risorse, ai cittadini delle regioni danneggiate non rimase altra via che andare a cercare altrove un modo per sopravvivere. Fu solo allora che nel Meridione cominciò la vera emigrazione, quella che nell’immaginario collettivo viene vista come un esodo. Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1914, quando con lo scoppio della guerra mondiale si interruppero tutti i flussi dell’emigrazione, furono più di 4 milioni i cittadini del Sud che partirono (dei quali quasi 1.000.000 dalla Campania e addirittura più di 1.100.000 dalla Sicilia). Non era ancora finita, però, perché adesso c’erano nuove risorse, alle quali si poteva attingere. Gli emigrati, infatti, inviavano in patria i loro risparmi, le famose rimesse, che in buona parte finivano nelle casse postali. Queste alimentavano la Cassa depositi e prestiti, che concedeva mutui ai comuni per la costruzione di opere pubbliche e per l’istituzione di scuole. E i comuni che potevano permettersi di indebitarsi all’epoca erano quasi esclusivamente quelli settentrionali.
Altra parte delle rimesse veniva investita, invece, nei Buoni del Tesoro, offerti dallo Stato con interessi allettanti, con i quali si finanziavano le industrie, tutte oramai comprese nel cosiddetto triangolo industriale tra Torino, Genova e Milano. Le somme che arrivavano dall’estero erano ingenti e dai circa 200 milioni del 1900, si passò ai 300 di media tra il 1901 e il 1905 e ai quasi 500 di media per il quinquennio successivo, per arrivare addirittura ai circa 700 milioni del 1913.
Gino Massullo nel saggio Economia delle rimesse (in Storia dell’emigrazione italiana a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Donzelli, 2001) ricorda come gli osservatori dell’epoca parlassero di “una fantastica pioggia d’oro” e per dare un’idea della sua reale portata lo storico Stefano Pelaggi ne L’altra Italia. Emigrazione storica e mobilità giovanile a confronto (Nuova Cultura, 2011) scrive: “Basti pensare che nei primi 15 anni del Novecento gli importi delle rimesse sono stati superiori al gettito derivato dalle imposizioni fiscali dello Stato, ossia gli emigranti hanno generato un flusso economico superiore alle tasse percepite nella intera Italia.” E forse vale la pena di sottolineare come proprio in quegli gli anni le maggiori industrie del Paese cominciavano a raggiungere la dimensione internazionale, che presentano ancora ai giorni nostri.
In conclusione, se l’Italia nel Novecento è diventata uno dei paesi più industrializzati al mondo (fu il sesto attorno al 1920 a poter essere definito in questo modo), lo deve sacrificio del Sud. Le sue ricchezze hanno consentito la nascita della grande industria nazionale, concentrata nel Nord, i suoi consumi hanno dato la possibilità alle imprese settentrionali di crescere e, infine, sono state le rimesse degli emigranti (da un certo momento in poi prevalentemente meridionali), che hanno permesso a queste imprese di consolidarsi, per poi affrontare i mercati internazionali senza restarne schiacciate.
Di tutto questo (e di altro ancora) parleremo nella nostra rubrica e così scopriremo come, poco per volta, il nostro Sud sia stato trasformato in una vera e propria colonia. Solo su L’identitario
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