Rubrica a cura di Enrico Fagnano: Il Mezzogiorno prima dell’Unità
Nel 1861 il pil dell’Italia settentrionale era di 337 lire pro-capite, praticamente pari a quello dell’Italia del sud, che era di 335 lire pro-capite (Vittorio Daniele e Paolo Malanima ne Il Divario Nord-Sud in Italia, 1860-2011, Rubbettino, 2011). Il dato relativo al Meridione, però, era inferiore al suo reale potenziale. Infatti era penalizzato dalla guerra che si stava combattendo sull’intero territorio delle Due Sicilie e aveva frenato la produzione, sia nel settore agricolo, sia in quello industriale. Al contrario il dato del Nord era maggiorato dal grande sforzo effettuato dall’industria piemontese per completare la rete ferroviaria dello Stato subalpino, che fu portata a circa 850 chilometri e il cui ampliamento, iniziato nel 1854, si era appena concluso.
(La situazione economica in Italia prima dell’Unità)
La spesa necessaria per questi lavori era stata rilevante e il regno sardo, che era in difficoltà, per fronteggiarla dovette contrarre ulteriori debiti. Sembra difficile, però, immaginare che gli uomini del suo governo abbiano proceduto ad un’operazione così impegnativa, senza tenere conto del passivo generale e quindi si può ritenere che già all’epoca tra loro circolasse l’idea di risolvere il problema attingendo ai fondi nelle casse degli altri Stati italiani, come poi accadde. La questione è efficacemente sintetizzata da Guido Dorso nel brano tratto da Dittatura Classe politica e Classe Dirigente (Einaudi, 1949), che abbiamo già riportato nella prima puntata della nostra rubrica. Ecco cosa scrive il meridionalista avellinese: ‘Il primo atto della tragedia si aprì con l’unificazione del debito pubblico nazionale. Il Piemonte, il paese più tassato e indebitato d’Europa, con un disavanzo annuo di cinquanta milioni ed un debito pubblico di 640 milioni quattro volte superiore a quello dell’intero Regno di Napoli, rovesciò sul nuovo Stato questo enorme carico finanziario. Si disse che tutta l’Italia aveva obbligo di rimborsare le spese che il piccolo stato subalpino aveva sostenuto per finanziare l’indipendenza nazionale, e non era vero perché il debito pubblico piemontese in massima parte derivava da lavori pubblici, specialmente ferroviari.’
Tornando al pil, da quanto detto si desume che quello reale (cioè non limitato dal conflitto in corso) delle Due Sicilie sarebbe stato superiore, e non di poco, a quello realizzato a regime (cioè senza i lavori eccezionali della rete ferroviaria) dal regno dei Savoia. A proposito degli altri Stati italiani, va detto che non avevano un sistema produttivo, se non a livello embrionale, e ciò vale per lo Stato della Chiesa, che venne annesso nel 1870, ma anche per il Lombardo-Veneto. Quest’ultimo veniva considerato dall’impero austro-ungarico, del quale faceva parte, come una sorta di territorio coloniale o, comunque, come un mercato per la sua industria, che era in difficoltà e non riusciva a trovare una dimensione moderna. D’altro canto il grande stato dell’Europa centrale in tutti i settori subiva ritardi, dovuti all’eccessiva estensione del territorio in relazione alla pluralità delle sue nazionalità, caratteristica, questa, che lo rendeva oramai storicamente superato. In una situazione del genere il governo asburgico non favoriva certo lo sviluppo nelle sue province italiane e infatti il processo di crescita in Lombardia è cominciato dopo l’Unità, mentre in Veneto addirittura solo in pieno Novecento. (La prima acquisita dal Piemonte nel 1859 e il secondo annesso nel 1866).
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Nella penisola, quindi, lo Stato che aveva la maggiore capacità produttiva era quello borbonico. Era l’unico, infatti, che avesse seriamente avviato un processo di industrializzazione e a partire dal 1840 il progresso fu addirittura vertiginoso, grazie anche all’apporto di capitali stranieri, attirati dalla politica economica di Ferdinando II. Il primato in Italia era fuori discussione e a confermarlo ci sono anche i dati del censimento effettuato nel 1861, dai quali si rileva come nel Sud gli occupati nel settore industriale fossero quasi 1.600.000, più di quelli di tutto il resto della nuova nazione, nella quale complessivamente erano circa 1.400.000. In particolare in Lombardia erano 465.000, in Toscana 266.000 e nell’ex regno sardo appena 377.000, a distanza considerevole dal dato relativo alle Due Sicilie. Dai recenti studi degli economisti Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea (La produzione industriale delle regioni d’Italia 1861-1913: una ricostruzione quantitativa, Banca d’Italia, 2014) si riscontra, poi, che nel 1861 il valore della produzione manifatturiera ed estrattiva della Campania fu di 39 milioni, superiore a quello della Lombardia, pari a 36 milioni, e a quello del Piemonte, pari a 29 milioni, mentre, come ricorda lo studioso beneventano Luigi Ruscello ne La questione meridionale non avrà mai fine (Ti Pubblica, 2018), complessivamente le regioni del sud raggiunsero l’importo di 86 milioni e quelle settentrionali di 85. Questi dati assumono particolare rilievo, se si tiene conto che in quell’anno, come già messo in luce, era oramai estesa a tutti i territori conquistati la guerra, che limitava in maniera significativa l’attività in ogni settore (i notevoli danni provocati dalla ribellione e dalla sua repressione preoccuparono anche i politici inglesi, che riscontravano un massiccio calo delle loro esportazioni nell’ex regno, pari addirittura quasi al 50%).
La parte industrializzata dell’Italia, quindi, prima del 1860 era il Meridione, ma al primato nella penisola corrispondeva una posizione non secondaria anche a livello internazionale. L’Inghilterra e la Francia erano le vere potenze dell’epoca e la loro forza economica sembrava sconfinata grazie alle enormi ricchezze che affluivano dalle colonie. Il confronto con le due nazioni egemoni, che a tutte le altre lasciavano uno spazio realmente ridotto, era improponibile, ma dietro di loro, a una distanza ragguardevole, c’era un gruppo di paesi tra i quali il piccolo Stato meridionale aveva un ruolo di un certo rilievo. Al proposito si ricorda che l’opificio di Pietrarsa fu utilizzato come modello per la costruzione della fabbrica di Kronstadt e che questo rappresentò l’inizio del processo di industrializzazione in Russia, ma si ricorda anche che nell’Esposizione internazionale di Parigi del 1856 il regno napoletano ricevette il primo premio per la produzione della pasta e per quella del corallo.
A testimoniare la considerazione di cui all’epoca godeva l’economia dello Stato del sud, ci sono anche le quotazioni delle sue rendite, oscillanti tra il 115% e il 120%, che erano le più alte tra quelle europee, superiori persino alle quotazioni delle rendite inglesi e francesi, mentre a conferma della solidità che i mercati attribuivano al sistema finanziario delle Due Sicilie, i titoli del suo debito pubblico, corrispondenti agli odierni bond (da noi chiamati BTP), venivano retribuiti con il tasso più basso nella penisola, il 4,3%, mentre gli equivalenti titoli piemontesi venivano retribuiti al 5,7% e quelli lombardi addirittura al 5,9%. (In una situazione analoga a quella della monarchia borbonica nell’Italia dell’epoca oggi nel nostro continente si trova la Germania e infatti sono diversi gli studi di economisti contemporanei, tra i quali il più noto è quello di Stéphanie Collet, A unified Italy? Sovereign debt and investor scepticism, ULB, 2012, sul destino dei bond napoletani dopo l’Unità, compiuti con lo scopo di comprendere cosa potrebbe accadere a quelli odierni tedeschi dopo un’eventuale unificazione dei debiti delle nazioni appartenenti alla comunità europea.)
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