Home Attualità La politica amministrativa nelle Due Sicilie e in Piemonte

La politica amministrativa nelle Due Sicilie e in Piemonte

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Rubrica a cura di Enrico Fagnano: Il Mezzogiorno dopo l’Unità
Le differenze tra la politica amministrativa del Regno delle Due Sicilie e del Piemonte erano enormi e derivavano dalla diversa concezione che i due Stati avevano del proprio ruolo. Il primo, in particolare, a questo riguardo aveva ereditato le idee dell’economista illuminista toscano Bernardo Tanucci. Venuto a Napoli con Carlo di Borbone nel 1735, inizialmente fu suo consigliere, poi dal 1754 al 1776 fu primo ministro e quindi di fatto governò per circa quaranta anni, quasi fino alla sua morte, avvenuta nel 1783. Tanucci riteneva che la ricchezza di un Paese fosse rappresentata dalla somma della ricchezza dei suoi cittadini e per questo faceva in modo che la maggior parte del reddito rimanesse nella disponibilità di chi lo aveva prodotto. Era convinto, infatti, che i privati lo avrebbero investito con maggiore efficacia di quanto avrebbero potuto fare le strutture pubbliche. Le sue idee rivoluzionarie (lo erano all’epoca, ma per la verità lo sarebbero ancora oggi) furono fatte proprie dai Borbone e anche Ferdinando II le portò avanti con determinazione. Per comprendere il pensiero del noto economista, basta leggere l’epitaffio che volle sulla sua tomba. Non vi fece scrivere, infatti, che intendeva essere ricordato per le opere pubbliche realizzate, in ogni caso numerose e rilevanti, ma per essere riuscito a non aumentare di una sola lira le tasse ai Napoletani durante i quaranta anni in cui aveva governato. (In sostanza, comunque, le tasse non furono aumentate neanche dai suoi successori).
Ecco il testo originale, ovviamente in latino: “Cum per annos plusquam quadraginta clavum huius Regni moderasset, vectigal nullum usquam imposuit”.

Ben diversa era la situazione nel Regno di Sardegna, dove il governo intendeva occuparsi di ogni iniziativa e avere il controllo di ogni settore dell’economia. Per farlo, quindi, innanzi tutto aveva bisogno di disciplinare le singole attività con una serie ossessiva di leggi e di regolamenti (che anziché chiarire le situazioni, le rendevano ancora più confuse), ma poi aveva anche bisogno di organismi complessi,
per finanziare i quali erano necessarie somme ingenti. Da quanto detto, tra il Regno delle Due Sicilie e quello sabaudo scaturiva una differenza, che riguardava la dimensione stessa delle loro strutture. I dipendenti pubblici, infatti, nello Stato napoletano, che aveva quasi 9.200.000 abitanti, erano 38.000, mentre in quello subalpino, che aveva circa 4.200.000 abitanti, erano 76.000. Fatte le proporzioni, nel primo su 100 abitanti ce n’era uno e nel secondo ce n’erano quattro o cinque. Gli uffici piemontesi, quindi, erano affollati di impiegati, che spesso per il sovrapporsi delle direttive non sapevano neanche di preciso quali fossero i loro compiti. In una situazione del genere, tra l’altro, ovviamente era difficile effettuare controlli efficaci e pertanto la corruzione dilagava. Negli uffici delle Due Sicilie, invece, gli occupati
non eccedevano il numero strettamente necessario, potendo così svolgere le loro mansioni in maniera proficua e proprio l’efficienza dell’amministrazione era uno degli elementi che attiravano gli imprenditori dall’estero, anche se non il principale,come vedremo nelle prossime puntate della nostra rubrica.

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Dopo l’Unità i dirigenti e moloti impiegati pubblici meridionali vennero rimossi e al loro posto venne immesso un numero ben maggiore di dirigenti e impiegati provenienti dalle regioni settentrionali. Questi ignoravano completamente la realtà, nella quale venivano catapultati e quindi in breve anche nel Sud l’organizzazione dello Stato piombò nel caos. L’efficienza e la competenza del personale napoletano ci vengono testimoniate, tra gli altri, anche dal magistrato e funzionario piemontese Vittorio Sacchi, che nella lunga carriera si era sempre contraddistinto per la sua estrema correttezza. Direttore dei tributi e del catasto in Sardegna fino alla fine del 1860, nel marzo del 1861 era stato inviato da Cavour a Napoli come segretario generale per dirigere l’amministrazione delle finanze nei territori meridionali e nel suo rendiconto, pubblicato a proprie spese nel novembre del 1861 (riportato anche da Pietro Calà Ulloa in allegato al suo Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, edizione anonima, 1862), scrisse: ‘In generale nella finanza napoletana, molte belle intelligenze vi si faceano rimarcare.

E checché voglia dirsi in contrario, vi si trovavano uomini di grande istruzione. Le scienze economiche, altrove generalmente sconosciute alla classe degli impiegati, erano qui generalmente professate. Facili e pronti i concetti, purgata ed elegante la lingua, si scostavano le scritture degli uffici da quell’amalgama di parole convenzionali che altrove rimpinzano le corrispondenze ufficiali. In una parola, nei diversi rami delle amministrazioni si trovavano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più illuminato Governo’. Per il nuovo potere, però, evidentemente la competenza professionale non era una priorità ed erano ben altre le qualità (chiamiamole così) di cui tenere conto. Il magistrato e alto dirigente, comunque, non mancò di commentare positivamente, come vedremo, anche il meccanismo generale delle finanze napoletane.

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