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Le violenze di militari contro civili inermi sotto atti di terrorismo

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 Rubrica a cura di Enrico Fagnano: Il Mezzogiorno dopo l’Unità
Nella scorsa puntata di questa rubrica ho riportato le meravigliose parole dette su Napoli dal politico milanese, nonché eminente studioso, Giuseppe Ferrari. Incidentalmente ho ricordato che Ferrari denunciò anche in Parlamento l’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni. Un lettore, anziché porre attenzione alla parte più importante del mio articolo, si è voluto invece soffermare su questo eccidio e questo è quello che mi ha scritto: ‘A Pontelandolfo e Casalduni furono uccise 13 persone (e non 600). Era la reazione al fatto che prima erano stati trucidati 46 carabinieri. Questo è successo: 46 carabinieri erano stati uccisi, poi un cocchiere passò più volte sui loro corpi con una carrozza. Dopo a tanti di questi carabinieri furono tagliate le teste e alcune furono esposte in chiesa.’

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Io gli ho risposto e ho colto l’occasione per introdurre un concetto di carattere generale, ovvero che quando militari appartenenti a un esercito si accaniscono contro la popolazione inerme perdono la loro qualifica di militari e diventano veri e propri terroristi. Comunque questa è stata la mia risposta: ‘Carissimo (per motivi di riservatezza ometto il nome), a parte che il mio articolo riguardava altro e cita solo incidentalmente l’intervento di Ferrari su Pontelandolfo, in riferimento all’eccidio di questa cittadina, i numeri sono difficili da ricavare (e infatti io non ne faccio mai). L’eccidio, però, ci fu e sicuramente tu avrai letto integralmente l’intervento di Ferrari in Parlamento, che in alcuni punti è davvero terribile, anzi, direi addirittura sconvolgente. Sicuramente, poi, avrai anche letto quello che ha scritto il bersagliere Carlo Margolfo nel suo diario (Mi toccò in sorte il numero 15, Edizione Comune e Pro Loco Delebio, 1992), nel quale dice, tra l’altro, che si sentivano le ossa dei poveri cristi bruciati vivi nelle case scricchiolare come fanno le ossa dei polli alla brace (testuale!). Sicuramente avrai anche letto la lettera scritta dal colonnello Negri (quello che comandava la colonna di Pontelandolfo) al padre, nella quale ammette che in quel paese erano state fatte da lui e dai suoi soldati cose atroci. Ti inviterei, pertanto a indicarmi la fonte dalla quale trai l’indicazione secondo la quale i morti sono stati solo 13, perché alla luce di quanto descritto dai testimoni oculari dell’eccidio, questo numero mi pare estremamente improbabile (per non dire improponibile). Il numero, però conta poco, perché il fatto in sé resta e resta che nel primo anno di guerra civile i paesi devastati dall’esercito sono stati almeno 15. Troverai l’elenco completo nella famosa interpellanza del 20 novembre 1861 del Proto Carafa (un liberale antiborbonico, che era stato anche esule, e pertanto non può certo essere considerato uomo di parte. In quel momento, però, stava cominciando a capire il grande errore commesso appoggiando i Piemontesi). L’elenco, ad abundantiam, è confermato anche da Calà Ulloa nel suo libro ‘Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie’ (Edizione anonima, 1862) e in linea di massima viene confermato anche dalla Civiltà Cattolica del 19 ottobre 1861, che ne indica 13. Ricordo, infine, che lo storico Pasquale Amato (certamente non un nostalgico delle Due Sicilie) nel suo ‘Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi’ (Edizioni Città del Sole, 2011) scrive che da fonti governative risulta che i paesi distrutti nel 1862 furono 37.

Infine devo segnalarti che, come altri, tu fai un errore di metodo (o forse meglio, concettuale), mettendo sullo stesso piano le violenze compiute nei confronti di militari, appartenenti a un esercito di invasori, con le violenze compiute da militari nei confronti della popolazione inerme. I militari venivano nel Sud per combattere una guerra contro i nostri eroici guerriglieri e per questo, quando avevano indossato quella divisa, avevano accettato la possibilità di essere uccisi nel corso delle successive operazioni. Gli atti compiuti nei loro confronti, per quanto efferati, sono stati tutti atti di guerra, perché compiuti contro militari armati e intervenuti in un territorio conquistato. I militari piemontesi (o italiani, in quel momento questa distinzione era priva di senso) avrebbero dovuto rivalersi contro i componenti dell’esercito dei briganti, anche loro armati e organizzati militarmente. In questo caso avresti ragione nel mettere sullo stesso piano le violenze compiute dall’una e dall’altra parte. Nel momento, invece, in cui i militari piemontesi hanno cominciato a rivalersi contro la popolazione inerme, i loro, da atti di guerra, sono diventati atti di terrorismo. (Questo, però, è un principio generale, che vale in tutte le epoche e in tutte le guerre. Ogni volta che militari compiono atti di violenza nei confronti di civili, che non hanno la possibilità di difendersi, perdono lo status di militari e diventano un’altra cosa: a qual punto senza alcun timore possono esser definiti terroristi).

Per concludere sulla nostra resistenza postunitaria: gli atti di violenza compiuti contro cittadini estranei alla guerra e nella assoluta impossibilità di difendersi, non possono in nessuna maniera essere messi sullo stesso piano degli atti di violenza compiuti contro militari armati, appartenenti a un esercito, che stava conducendo UNA GUERRA DI CONQUISTA. Fare un’equiparazione del genere è contro ogni logica e, direi, anche contro ogni più elementare principio di giustizia’.

Al momento non risultano ancora pervenute repliche da parte del nostro amico lettore.

Quindicesima puntata. I libri di Enrico Fagnano IL SUD DOPO L’UNITÀ e IL PIEMONTESISMO E LA BUROCRAZIA IN ITALIA DOPO L’UNITÀ sono disponibili sul sito Bottega2Sicilie

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