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Briganti: Intervista all’attore Orlando Cinque. “Orgoglioso di discendere da una famiglia di Briganti”

BCC

Una bellissima intervista, a tratti emozionante, quella fatta al noto attore Orlando Cinque dopo la sua partecipazione alla serie televisiva di Netflix “Briganti”, che ha portato ancora una volta il suo talento alla ribalta del grande pubblico. Cinque ha sviluppato fin da giovane una passione per la recitazione e la sua carriera è caratterizzata da una versatilità che gli ha permesso di interpretare ruoli complessi e variegati, sia in produzioni teatrali che sul piccolo schermo. Il ruolo in “Briganti” rappresenta un altro punto di svolta nella sua carriera, consentendogli di raggiungere un pubblico più ampio. La serie, ambientata nell’Italia del XIX secolo, segue le vicende di ribelli patrioti che lottano contro l’oppressione sabauda nelle terre delle Due Sicilie ormai conquistate ed impoverite dell’Oro del Sud. La performance di Cinque è stata lodata per l’intensità e l’autenticità con cui ha ‘riportato’ in vita il suo personaggio, il brigante Pietro Monaco.

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Come sei stato coinvolto nel progetto di “Briganti” e cosa ti ha attirato verso questo ruolo?
È una storia lunga che parte dall’estate 2021, un periodo particolare. So che avevano fatto tanti provini anche per il mio personaggio, che sembrava fatto appositamente per me. Questo progetto venne inizialmente sospeso e poi rimandato; sembrava che qualcosa fosse andato storto. Credevo nella serie a tal punto da rifiutare un altro contratto, nell’attesa della risposta da parte di Netflix. Fortunatamente mi è andata bene. Si tratta della serie italiana più onerosa fino a quel momento, con circa 20 milioni di euro investiti da Netflix. Un tema a me molto caro, in quanto mi piace credere alla leggenda di famiglia per cui discenderemmo dai “Cinque” fratelli che composero uno dei gruppi di briganti nella zona dell’Amalfitano dei Monti Lattari. Sono cresciuto con questa fascinazione per il tema del brigantaggio, con le canzoni della NCCP, come “brigante se more”, e tutto il contesto sulla verità storica dei resistenti di questa terra durante quei periodi bui. Pietro Monaco è un personaggio realmente esistito nella storia, ed è importante nella serie il rapporto con il padre che lui deve liberare.

Quali sono i punti in comune che hai trovato con il tuo personaggio?
Un attore deve sempre trovare dei punti in comune con il personaggio che va ad interpretare. Nel mio caso, trovare questi punti è stato molto naturale e istintivo. Da un punto di vista personale, è un personaggio molto forte ma con punti di fragilità, che cerca il consenso del padre – che io ho perso quando ero piccolo – ed ha un rapporto d’amore quasi paritario con la sua donna, che per un brigante dell’epoca era un fatto rivoluzionario. Da un punto di vista ideologico-politico, per quanto possa amare l’intero nostro Paese, sono fermamente convinto che il nostro Sud sia stato “scamazzato” e ha il diritto-dovere di ritrovare il suo riscatto. Forse, con la nostra serie siamo riusciti a dare una prospettiva diversa su quella storia. A Genova, che è una città stupenda e accogliente, negli anni ’90 ho sentito sulla mia pelle il razzismo in quanto napoletano, e questo mi fece capire quanto ero fiero delle mie origini. Dall’altra parte, noi napoletani abbiamo tante colpe, e una rinascita deve partire da un’assunzione di responsabilità. Anche per la storia, purtroppo, abbiamo avuto delle responsabilità per come sono andati i fatti.

Qual è stato l’episodio di “Briganti” che ti ha colpito particolarmente e di cui sei stato fiero?
Ci sono due scene: l’ultima con il padre, una scena da psicodramma e molto commovente tanto che dopo averla girata ho pianto per mezz’ora, non riuscivo a fare quella successiva. Poi c’è la scena in cui il mio personaggio piange la perdita di un suo compagno di lotta; anche il regista Nicola Sorcinelli, che ringrazio, è stato in grado di rendere quella scena ancora più emozionante, in cui si vive il momento di catarsi di Pietro che mostra il suo lato fragile.  Da una parte si vede quindi il brigante forte e violento, dall’altra parte la sua enorme fragilità, soprattutto nella scena del fiume, dopo il primo take piangeva mezza troupe. Lì ho capito che avevo toccato qualcosa di forte.

Ci piacerebbe conoscere anche un po’ l’artista Orlando Cinque e le sue sfide. Per il mondo teatrale in Italia pensi che il merito ed il talento bastino per fare carriera?
Ho cominciato a fare l’attore molto giovane perché vedevo nel teatro una possibilità di libertà; da orfano, rifiutavo l’idea di appartenere ad una famiglia tradizionale. Mi sono accorto col tempo che, per fare teatro, devi sposare una famiglia. Il problema della nostra terra è che le famiglie diventano “clan”. Ti faccio un esempio: anni fa rifiutai, di fare un film con un noto produttore napoletano perché mi offriva la paga di una comparsa, nonostante avessi già fatto “Romanzo Criminale”. Per me era difficile, non per avidità ma proprio per le spese anche solo per lo spostamento, declinai l’offerta scusandomi. Mi disse di non chiamarlo mai più. Questo per me è un atteggiamento “malavitoso” che ho visto troppo spesso in questo mondo “artistico”.

Pensi che la mentalità da “clan”, rimanendo sul tema dei “briganti”, abbia causato la nostra sconfitta nel 1861 per le troppe divisioni?
Sono totalmente d’accordo. Ho avuto la fortuna di girare tutto il Paese e mi sono reso conto delle enormi differenze. Il Sud mantiene quel senso di umanità ma si è sviluppata una lotta “tra clan” in ogni settore. Qui c’è ancora la perversione del senso di famiglia, tu “appartieni” a quella famiglia. Nel mio paese d’origine dicono ancora oggi: “a chi appartieni?”. Quella cosa sconfina nel clan, per cui il bene della famiglia è solo un individualismo moltiplicato. Pur essendo noi un tempo una grande nazione, oggi c’è ancora il “o con me o contro di me”.

Prossimi progetti?
Ho ripreso a scrivere e dovrei fare uno spettacolo teatrale a novembre. Il mio settore sta soffrendo molto, forse peggio della pandemia, periodo in cui ci sentivamo almeno considerati. Non si sblocca il decreto del “tax credit”, un sistema fiscale su cui si era settato tutto il mondo industriale dell’audiovisivo e che funzionava benissimo. Questa cosa è stata bloccata senza alcun motivo, se non quello di punire un settore industriale che non è “interessante” per questo attuale governo. In America si parla di “industria del cinema”, mentre in Italia quello dell’attore non viene quasi neanche considerato come lavoro. Infine, voglio ringraziare l’Identitario per l’intervista (bellissimo il progetto di questo giornale che non conoscevo) e per l’interesse mostrato in questi giorni: oltre che per l’avermi dato massima libertà nell’esprimere i concetti che volevo esprimere, senza bavagli come purtroppo a volte succede.

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