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Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie (seconda parte)

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Rubrica a cura di Enrico Fagnano: IL MEZZOGIORNO DOPO L’UNITA’
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Napoli fu la prima città in Italia (e la quarta in Europa) ad avere un impianto di illuminazione stradale a gas
, portato a temine tra il 1838 e il 1843 dalla compagnia del napoletano Giovanni De Frigiere, poi rilevata dal francese Alfonso Pouchain, uno dei numerosissimi imprenditori stranieri che si erano trasferiti nel Regno delle Due Sicilie. Lo Stato di Ferdinando II fu anche il primo della penisola ad avere una rete di fari lenticolari, completata nel 1841, e un servizio telegrafico nazionale. Quest’ultimo fu ufficialmente inaugurato nel 1854 e le sue linee iniziali di Nocera, Salerno e Avellino vennero in seguito estese agli altri territori del regno, comprese le isole, raggiungendo in tutto 87 uffici postali e una lunghezza di 4.000 chilometri (sugli 8.000 complessivi nel Paese prima dell’Unità). La posa dei cavi sottomarini, che collegarono Capri, Procida, Ischia, la Sicilia e infine nel 1857 Ponza e Ventotene, fu studiata e realizzata dagli ingegneri dell’officina di Pietrarsa e fu un’opera all’avanguardia per l’epoca. Solo quando la rete era già giunta in Sicilia, infatti, gli Inglesi avviarono gli analoghi lavori di attraversamento del Canale della Manica (che oltre tutto dovettero effettuare due volte, perché la prima volta risultarono compromessi da gravi difetti di progettazione).

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Anche nel settore finanziario il regno napoletano otteneva risultati di rilievo e questi non potevano che essere frutto di un sistema efficiente e amministrato con competenza. Come riporta tra gli altri anche Liborio Romano (nella lettera sui danni causati al Sud dall’Unità inviata a Cavour il 15 maggio 1861), dalle sue casse vennero recuperati 80 milioni, che furono vero e proprio ossigeno per la nuova Italia (mentre dalle casse del Granducato di Toscana furono recuperati 10 milioni e da quelle delle Marche e della Romagna 2 milioni). Il contributo iniziale del Meridione all’economia nazionale, però, fu ancora maggiore e probabilmente va calcolato in almeno 100 milioni, perché bisogna considerare anche i fondi provenienti dalle 2.500 municipalità, i cui conti furono prosciugati, e dalla vendita di beni appartenenti al Regno delle Due Sicilie, costituiti da immobili e strutture pubbliche, effettuata secondo un piano predisposto già nella primavera del 1861, senza dimenticare che il governo incamerò anche i depositi e i beni personali di Francesco II e degli altri membri della famiglia reale.

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A proposito della situazione in cui si trovavano lo stato meridionale e il Piemonte al momento dell’unificazione, Nitti in ‘Nord e Sud’ (Roux e Viarengo, 1900) dice: ‘Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1859 non solo il più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita, superiori a quelli dello stesso consolidato francese ­– ma anche quello che, tra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e bene armonizzate; semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi; dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte in gran parte senza criterio; con un debito pubblico enorme, e a cui pendeva sul capo lo spettro del fallimento. Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all’unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento. La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata tra il 1849 e il 1859 da una enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, avea determinato una situazione da cui si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro Stato più grande.’

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Per quanto riguarda l’ordine che vi era nei conti dell’amministrazione borbonica, in contrapposizione al disordine nel quale si trovavano invece i conti del regno subalpino, l’economista lucano dice ancora: ‘Nel luglio 1860 fu pubblicata la situazione delle finanze napoletane, per cura dello stesso Ministero delle finanze: la pubblicazione fatta allora contiene tutti i bilanci dal 1848 al 1859. È il primo documento autentico che abbia valore indiscutibile … La finanza piemontese, benché in Piemonte vi fosse regime costituzionale, non è più facile a esaminare di quella di Napoli, che era sotto regime assoluto. Nel 1862 i consuntivi non giungevano che al 1853: il disordine nella esazione delle imposte e nelle spese era notevole e mancano ancora adesso molti elementi di giudizio (come abbiamo detto nelle puntate precedenti, dal 1855 il Regno di Sardegna non produsse più i propri bilanci). La finanza napoletana, organizzata da un uomo di genio, il cavaliere Medici, era forse la più adatta alla situazione economica del paese. Le entrate erano poche e grandi e di facile riscossione. Dal 1848 al 1859 il Regno delle Due Sicilie, non ostante le difficoltà interne, non mise alcuna imposta nuova, né aumentò le antiche. Nello stesso periodo in Piemonte le imposte antiche furono aumentate e molte nuove furono introdotte.’

L’efficienza delle strutture napoletane viene confermata dall’alto dirigente piemontese Vittorio Sacchi, che era stato direttore dei tributi e del catasto in Sardegna fino alla fine del 1860 e nel marzo del 1861 era stato inviato da Cavour a Napoli come segretario generale per dirigere l’amministrazione delle finanze nei territori meridionali. Nel suo rendiconto, pubblicato a proprie spese nel novembre del 1861 (riportato anche da Pietro Calà Ulloa in allegato al suo ‘Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie’, edizione anonima, 1862), Sacchi dopo aver elogiato i dipendenti pubblici meridionali (come abbiamo visto nella nona puntata della nostra rubrica), definì anche ‘mirabile l’organismo finanziario delle Province Napoletane’, sottolineandone la razionalità e la coerenza, e a proposito della riscossione dell’imposta sui terreni, che era la principale dell’epoca, scrisse: ‘Il sistema di percezione della fondiaria, la prima e la più importante delle risorse dello Stato, era incontrastabilmente il più spedito, semplice e sicuro, che si avesse forse in Italia. Lo Stato avea assicurato a periodi fissi e ben determinati l’incasso del tributo, colle più solide garanzie contro ogni malversazione per parte dei contabili.’

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