Di Antonio Folle
Era un caldo 6 agosto del 1863. I fratelli italiani erano arrivati da poco a “liberarci” dall’essere uno Stato sovrano e indipendente. Il Real Opificio di Pietrarsa, un gioiello dell’industria e della meccanica dell’epoca, era in fase di lento e inesorabile smantellamento, perché nel nuovo regno di quei boia dei Savoia non si poteva permettere alle “province napolitane” di essere più produttive delle aree del nord in cui si stava delocalizzando tutta la produzione industriale del neonato paese. E così la fabbrica voluta da Ferdinando II, dove al momento dell’unità lavoravano 1050 operai addetti alla produzione di locomotive a vapore e di materiali da destinare all’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, in meno di tre anni passò da 1050 operai altamente specializzati a circa 460 operai che vedevano le prospettive per il futuro farsi sempre più nere.
(6 agosto 1863: la strage degli operai napoletani che chiedevano pane e lavoro)
Quel maledetto 6 agosto l’ira degli operai di Pietrarsa arrivò al culmine: le notizie di ulteriori tagli alle commesse erano sempre più insistenti e il rischio di perdere altri posti di lavoro in favore delle fabbriche del nord (in quei tempi si stava trasferendo tutta la produzione di locomotive a vapore all’Ansaldo di Sampierdarena) era concreto. Scattò la protesta, con centinaia di operai assiepati all’esterno dei cancelli della fabbrica per far sentire la loro voce ai nuovi padroni e per chiedere garanzie sui livelli occupazionali. Le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori furono fatte passare per pericolosi tentativi di insurrezione armata, gli operai tacciati di essere furiosi borbonici furono violentemente caricati alla baionetta dai fratelli italiani vestiti da bersaglieri, su ordine dell’allora Prefetto Nicola Amore (sarebbe diventato sindaco di Napoli qualche anno dopo e oggi ha ancora intitolata una importante piazza della città).
Aniello Marino, Domenico del Grosso, Luigi Fabbrocino e Aniello Olivieri furono le prime vittime di una carica sconsiderata che al termine della giornata avrebbe avuto un bilancio tragico: circa sette morti e decine di feriti. Ma già a quel tempo si sapeva che erano numeri ampiamente sottostimati. I numerosissimi feriti, aggrediti a colpi di baionetta da quei soldati che si sarebbero poi più volte calati le braghe di fronte ai soldati austriaci e tedeschi, preferirono curarsi “in casa”, senza ricorrere agli ospedali per timore di essere successivamente arrestati. I referti medici dei feriti che andarono negli ospedali a farsi medicare parlavano chiaro: colpi di baionetta al petto ed alla schiena. Gli eroici bersaglieri non avevano caricato per disperdere la folla, ma per uccidere. Le ferite alla schiena dimostravano chiaramente che la soldataglia continuò a colpire anche chi stava semplicemente fuggendo.
Oggi la stragrande maggioranza della città continua colpevolmente ad ignorare quella che è stata una delle primissime stragi di stato compiuta contro gli operai che semplicemente rivendicavano pane e lavoro. Napoli continua ad avere piazze e strade dedicate agli assassini che ordinarono quella carica infame e l’ultima nicchia di Palazzo Reale continua ad ospitare la statua di quel sovrano che era calato al sud con le pezze al culo e ne era risalito ricco dell’oro delle Due Sicilie e sporco del sangue di migliaia di napolitani.
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6 agosto 1863: la strage degli operai napoletani che chiedevano pane e lavoro