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Geopop ‘toppa’ ancora sulla verità storica. Seconda replica documentata dei neoborbonici sul brigantaggio

BCC

Riportiamo e sosteniamo quanto scritto sulle pagine del Movimento Neoborbonico, e del prof. Gennaro de Crescenzo: Geopop ‘toppa’ ancora sulla verità storica. Seconda replica documentata dei neoborbonici sul brigantaggio

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“GEOPOP E LE SOLITE STORIE (ANCHE) SUL “BRIGANTAGGIO”: FORSE È MEGLIO CHE PARLINO DELLA NASCITA DELLE NUVOLE E DEI MOTIVI DI TUTTO QUESTO CALDO ESAGERATO… Replica e fonti.


Su Geopop ancora un articolo contro le tesi “neoborboniche” questa volta a proposito del brigantaggio e sempre a firma di Erminio Fonzo. Visto il silenzio del direttore e le repliche (tante) finora ignorate, ci sentiamo di suggerire a Geopop di evitare la storia “risorgimentale” e di dedicarsi ai temi per i quali sono diventati famosi (da dove vengono le nuvole? Perché fa caldo? E così via…).
Per l’articolista, allora, “il brigantaggio è una forma di criminalità esistente almeno dai tempi dell’impero romano”. Ma davvero? Quindi i delinquenti che rubavano o sequestravano sono sempre esistiti? Con questo scoop si dovranno aggiornare migliaia di libri! E intanto nella plurisecolare storia del Sud mai era capitato (ripeto “mai”) che per fronteggiare i “briganti” si fu costretti a mobilitare non meno di 150.000 soldati e per circa un decennio.
Peccato anche che l’articolista riduca ad una la motivazione principale del fenomeno: “la miseria e le condizioni economiche e sociali”. Strano, però, che (un caso?) le prime forme di reazione “brigantesca” si registrino, in provincia di Napoli e Avellino, esattamente nei giorni dell’arrivo di Garibaldi e del plebiscito (settembre/ottobre 1860). Qualcuno potrebbe mai credere davvero che quelle popolazioni si siano rese conto della loro “miseria” e delle loro “condizioni” solo e proprio in quei giorni? In tutto l’articolo si dice e ci si contraddice nel giro di poche righe: quindi se “l’unità d’Italia provocò un peggioramento delle condizioni di alcuni settori della popolazione meridionale”, subito dopo ci si affretta a scrivere che “si trattò di un peggioramento temporaneo, giacché l’Unità rappresentò un grande progresso per tutta la popolazione del Sud”. Qui il top dei dubbi: quanto durò, allora, quel peggioramento? E se i parametri relativi, ad esempio, a lavoro, industrie, redditi, depositi bancari, mortalità infantile o demografia, a detta anche di tanti accademici (citati nel mio precedente intervento), diventano negativi dal 1860 ad oggi fino ai federalismi fiscali e alle prossime autonomie differenziate, quel “temporaneo” si riferisce a 160 anni circa o l’autore ha individuato anni nei quali la questione meridionale era stata risolta e nessuno se n’è accorto? E in cosa si sarebbe concretizzato (vantaggi di pochi intellettuali e politici a parte) quel “grande progresso” per le popolazioni meridionali? Forse nei massacri briganteschi o nelle deportazioni al Nord (legge Pica, 1863) o nei milioni di meridionali che (solo) da allora fino ad oggi non hanno mai smesso di emigrare? Non un grande scoop anche la tesi secondo la quale “il fenomeno era diffuso nelle aree collinari e montuose ma era assente nei centri urbani”: complicato ipotizzare guerriglie e nascondigli nei vicoli di Napoli o tra via Toledo e piazza Plebiscito. Strano anche lo scoop della “crudeltà” dei briganti (nessuno aveva chiamato in casa nostra circa 150.000 crudelissimi soldati sabaudi e in tutto il mondo si definirebbe legittima (e purtroppo, a volte anche crudele) difesa. Strana anche la tesi degli “interessi personali” come ulteriore motivazione del brigantaggio. Se fosse stata vera quella tesi, la logica avrebbe suggerito ai briganti di schierarsi dalla parte dei vincitori sabaudi e non dei vinti borbonici, soprattutto dopo i primi eccidi e le prime fucilazioni (migliaia i casi di soldati delle Due Sicilie che non vollero giurare fedeltà ai Savoia preferendo prigioni, deportazioni o morte a carriere facili).


Tutto questo per non ammettere ciò che fatti, documenti e tanti autori (di certo non solo neoborbonici) hanno ammesso: si trattò di una invasione e di una legittima resistenza (altro che “mitizzazioni neoborboniche”). Del resto l’articolo cita solo 5 libri tra le fonti: 3 legati a singoli casi, 1 di mezzo secolo fa e quello del prof. Pinto, testo -supponiamo- utilizzato come “base” per tutto l’articolo. Proprio il libro di Pinto, del resto, riconosceva, pur con diverse contraddizioni, il valore “politico” di quella guerra e la crudeltà degli “invasori” con centinaia di documenti (Pinto, 2019). Molti dubbi anche sulle cifre: 10.000, per l’articolista, le vittime in 5 anni. A parte i dati recentissimi evidenziati dal prof. Gangemi (Metodologia della Ricerca presso l’Università di Padova) con la ricostruzione documentatissima dei documenti spariti e di centinaia di migliaia di vittime (Fenestrelle e Pontelandolfo incluse), sorprende che l’autore non si sorprenda di quel numero (non meno di 15/20.000 su 10 anni) e consideri “esagerato” il racconto neoborbonico della repressione (come se non fosse “esagerata” la morte di 15/20.000 persone o come se qualcuno avesse avuto il diritto di massacrare anche “solo” 15/20.000 persone, donne, vecchi e bambini compresi). Del resto facciamo fatica a credere che l’articolista abbia finalmente rintracciato e studiato tutti i documenti del brigantaggio (“avanzi di un naufragio” li definiva Molfese, uno dei maggiori studiosi del tema). E, a proposito di fonti ignorate, forse un occhio più attento ad altre fonti avrebbe evitato “riduzionismi” inutili. Fu lo stesso D’Azeglio a farsi quelle domande famose e drammatiche sulla necessità o meno di inviare nelle Due Sicilie “sessanta battaglioni (e pare che non bastino) e di dare archibugiate ad italiani che non vogliono unirsi a noi”. Fu lo stesso Benedetto Croce ad attestare che le Due Sicilie crollarono per “un urto esterno”. Fu lo stesso Gramsci a scrivere che l’Italia era stata “una dittatura feroce che ha messo ferro e a fuoco l’Italia meridionale, e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”. Fu lo stesso colonnello Cesare Cesari, ufficiale italiano che spese la sua vita tra i documenti del brigantaggio, a riconoscere che “per i meridionali l’esercito italiano era violatore e usurpatore dei legittimi diritti dello stato napoletano, essendo stata la reazione politica il principale movente di quella insurrezione” (Cesare Cesari, 1920). Fu lo stesso deputato (lombardo) Ferrari a gridare nel Parlamento che potevano “chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale e i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli”. La sensazione, allora, è che anche Geopop si stia allineando alla “vulgata risorgimentalista” e “senza diritto di replica”. Peccato per la sua credibilità e per l’assenza di un dibattito che poteva e potrebbe essere utile. Peccato anche per chi seguiva la rivista apprezzando articoli e articolisti.
Gennaro De Crescenzo

FONTI archivistiche e bibliografiche essenziali

  • Archivio di Stato di Napoli, Caserta Avellino, Salerno, Benevento, Potenza, Cosenza, fondi Brigantaggio
  • Archivio di Stato di Napoli, Fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, Fondo Ministero Finanze
  • Atti Parlamentari, tornata dicembre 1861
  • Massimo D’Azeglio, lettera a Carlo Matteucci, 1861
  • Cesare Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano, 1920
  • Benedetto Croce, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia, 1924
  • Carlo Ciccarelli, Stefano Fenoaltea, “Attraverso la lente di ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia post unitaria”, Quaderni di Storia Economica della Banca d’Italia, n. 4, luglio 2010
  • Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, 1964
  • Vittorio Daniele, “Il paese diviso”, 2019
  • John Davis, “Napoli e Napoleone”, 2006
  • Gennaro De Crescenzo, “Perché siamo neoborbonici”
  • Giuseppe Gangemi, “In punta di baionetta”, 2023
  • Giuseppe Gangemi, “Senza tocco di campane”, 2024
  • Antonio Gramsci, Scritti, 1913-1926: L’Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, Einaudi, 1954; il testo fu pubblicato per la prima volta su L’ Avanti, mercoledì 18 febbraio 1920 con lo pseudonimo “Il lanzo ubriaco”

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