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La questione meridionale: tra colonizzazione e decolonizzazione

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L’indipendentista: Rubrica libera a cura di Stefano Bouché

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Il Sud Italia è stato per lungo tempo vittima di una colonizzazione economica e culturale che ha segnato profondamente il suo tessuto sociale e identitario. Come tutti i popoli che hanno subito un genocidio, viviamo in uno stato di amnesia indotta, incapaci di ricordare e di rivendicare ciò che siamo stati e ciò che potremmo tornare ad essere. La questione meridionale non è solo economica: è, prima di tutto, una questione culturale. Per decolonizzarci, occorre anzitutto ricordare, analizzare e riscoprire la nostra storia, comprendere le dinamiche che ci hanno reso quello che siamo oggi.

Il primo passo verso la liberazione è la presa di coscienza. Dobbiamo decodificare il “codice nevrotico” che ci è stato imposto, smascherare i meccanismi economici che ancora oggi alimentano la nostra condizione di colonia. La storia dell’umanità è, in fondo, una storia economica: chi ha detenuto e detiene il potere economico ha sempre dettato le regole. Per questo motivo, la decolonizzazione del Sud passa inevitabilmente attraverso una rivoluzione culturale, ma non basta. Bisogna agire concretamente.

Per sviluppare un’identità collettiva forte e coesa, è necessario che il popolo meridionale, inteso come nazione napolitana, viva esperienze emotivamente significative, percepite come tali. Tuttavia, gli sforzi compiuti finora per dare vita a un partito politico che rappresenti veramente gli interessi del Sud non sono andati a buon fine. La verità è che manca un vero Grande Partito della Nazione Napolitana, in grado di unire tutti i cittadini, pur nella diversità. Non è sufficiente discutere di “ascari” o “terroni da cortile”; serve un’azione concreta e collettiva che vada oltre le polemiche e le recriminazioni.

Perché i tentativi di riscatto meridionale non hanno funzionato? Semplicemente perché non abbiamo ancora trovato la via giusta per incanalare la rabbia e la consapevolezza in azioni concrete. La consapevolezza della propria condizione di sottomissione passa per forza attraverso la rabbia, e spesso anche per la violenza. Non c’è nulla di male nell’ammettere che la rabbia è una risposta naturale all’ingiustizia subita, ma essa deve essere canalizzata. Se lasciata a sé stessa, la rabbia si trasforma in frustrazione, e la frustrazione ci condanna all’oblio. È un ciclo che si ripete, come un “gatto che si morde la coda”.

Il rischio che corriamo è quello di rimanere “confusi e infelici”, come cantava Carmen Consoli, in un perpetuo stato di stallo e rassegnazione. Alla fine, è facile puntare il dito contro il Nord o contro lo Stato, ma la verità è che, in parte, la colpa è nostra. Non abbiamo ancora trovato il modo di trasformare la nostra rabbia in una forza costruttiva.

Ma qual è la soluzione? La risposta è semplice e allo stesso tempo complessa: l’economia. Dobbiamo colpire il sistema economico che ci tiene soggiogati. È necessario incanalare la rabbia e la violenza in un progetto economico solido e unito. Dobbiamo fare soldi, ma non in modo individualista: dobbiamo farlo come popolo meridionale.

Il vero riscatto, quindi, non passa solo per la cultura e la memoria, ma anche attraverso il potere economico. Solo così possiamo sperare di cambiare le dinamiche che ci vedono sempre soccombere e di trasformare il Sud in un luogo di prosperità e autonomia. Come scrisse Manzoni: “”s’ha da fare””. Facciamolo, e facciamolo insieme.

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