IL MEZZOGIORNO DOPO L’UNITÀ Rubrica a cura di Enrico Fagnano
I briganti, come abbiamo detto nella precedente puntata, quando si vedevano oramai sopraffatti, combattevano con ancora maggiore accanimento, cercando la morte sul campo di battaglia. Essere catturati vivi era per loro la vera sconfitta. Erano consapevoli, infatti, di combattere una guerra disperata, considerata l’enorme differenza delle forze in campo, e per questo, si può dire sin dall’inizio, avevano in
qualche modo accettato di mettere in gioco la propria vita.
C’era, però, anche un altro motivo, che faceva preferire loro la morte e che era collegato alle conseguenze stesse della cattura. Il brigante una volta fatto prigioniero veniva portato via in catene e in questa condizione umiliante veniva letteralmente trascinato per le strade del paese nel cui territorio era stato arrestato. In altre parole veniva esibito alla popolazione come una vera e propria preda di guerra, per poi
essere fucilato nella piazza principale, dove il suo cadavere sarebbe rimasto abbandonato per giorni.
Con tali azioni i militari dell’esercito d’occupazione intendevano lanciare un monito alle popolazioni sottomesse. Il messaggio era diretto e facilmente comprensibile: erano loro i più forti e questa era la fine che faceva chi si ribellava.
In altre parole si intendeva terrorizzare le genti del Sud e dissuaderle dall’alimentare la guerriglia, o più genericamente dall’appoggiare le bande dei briganti. Peccato, però, che azioni del genere ottenessero l’effetto opposto, perché alimentavano l’odio per gli occupanti e i loro alleati e facevano crescere la voglia di vendicarsi. Da quanto detto sinora, risulta evidente che per il nuovo potere un brigante vivo
avesse ben altro valore che il cadavere di un brigante ucciso durante la sua cattura.
(Lo stesso si può dire anche per quelli che effettuavano l’arresto. Anche se la taglia generalmente, ma non sempre, era la stessa per il ribelle vivo o morto, nel primo caso c’erano tutta una serie di encomi, promozioni e premi supplementari, che facevano gola.)
Per questo i militari e i loro tristi collaborazionisti, generalmente organizzati nelle squadre della guardia nazionale, una volta catturato un brigante, facevano di tutto per mantenerlo in vita e mai e poi mai avrebbero diretto le loro armi contro di lui, se non ce ne fosse stata l’assoluta necessità. Questa considerazione sarà importante tenerla a mente, quando nella prossima puntata della nostra rubrica esamineremo le vicende collegate alla morte di Ninco Nanco.
Da quanto detto sinora, risulta evidente che i rivoltosi meridionali combattessero più o meno consapevolmente una guerra, nella quale avevano poche speranze di vittoria, ma allo stesso tempo non avessero nessuna intenzione di arrendersi. Chi colse questa drammatica contraddizione fu Carlo Levi, che nel suo Cristo si è fermato ad Eboli (Einaudi, 1945) dedica numerose pagine al brigantaggio.
Carlo Levi oltre ad essere un artista di primo piano, era anche un raffinato intellettuale. Poi era un piemontese e, come è noto, era comunista. È quindi difficile immaginare una personalità, che per le sue origini, per le sue idee e per i suoi valori,
potesse essere più lontana dal mondo di riferimento dei briganti. Però Carlo Levi era anche un uomo di una compassione unica, capace come pochi di immedesimarsi negli altri e di condividerne le loro attese e le loro speranze deluse.
Negli anni del suo confino ad Aliano comprese, quindi, il dolore di un popolo sfruttato, ingiustamente abbandonato, condannato ad una perenne lotta per la sopravvivenza, e che forse solo nella rivolta dei briganti aveva trovato l’illusione di un’effimera giustizia.
Ecco a questo proposito l’artista e intellettuale torinese cosa scrive: ‘La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dei: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero (si tratta della Madonna adorata ad Aliano, il paese in cui Levi era confinato) contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? (Bertrando Spaventa, fratello di Silvio e leader culturale dei fuorusciti, era seguace del filosofo tedesco) Il brigantaggio non è che un eccesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria.’ Anche per Carlo Levi, quindi, quella dei rivoltosi meridionali è una lotta eroica, secondo lui, però, profondamente drammatica. Ritiene, infatti, che questi combattenti in qualche modo fossero consapevoli della superiorità militare degli avversari e quindi la vittoria per loro non poteva essere altro che una pura e semplice illusione. Per questo, aggiungerei io, erano due volte eroi. E di fronte ai fatti che sto riportando (con assoluta precisione) e di fronte all’inequivocabile (e per molti versi addirittura straziante) giudizio di Carlo Levi, è arduo affermare qualcosa di diverso. Ventitreesima puntata. I libri di Enrico Fagnano IL SUD DOPO L’UNITÀ e IL PIEMONTESISMO E LA BUROCRAZIA IN ITALIA DOPO L’UNITÀ sono disponibili sul sito Bottega2Sicilie
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