Rubrica Il Mezzogiorno dopo l’Unità: a cura di Enrico Fagnano
L’Unità non fu un’unificazione, ma una vera e propria annessione di altri Stati al Regno di Sardegna, che con le vicende di quegli anni allargò i propri confini, incorporando i territori occupati, e piemontesizzò, come si disse all’epoca, il resto della penisola, senza neanche un segno formale di discontinuità, tant’è vero che Vittorio Emanuele II mantenne il suo ordine dinastico, quando invece sarebbe stato primo come Re della nuova nazione, e la legislatura, con la quale il 18 febbraio 1861 si inaugurò il Parlamento italiano, venne considerata come la continuazione di quelle subalpine e fu direttamente l’ottava.
In un contesto del genere fu naturale che gli uomini del governo torinese vedessero il Sud come un’opportunità per risolvere i problemi del paese che amministravano. Il loro stato d’animo si può cogliere da quanto dichiarato in Parlamento il 27 giugno 1861 da Marco Minghetti (bolognese di nascita, poi diventato cittadino dello stato sabaudo), all’epoca ministro dell’interno, il quale nel corso di un suo discorso affermò: ‘Veggiamo ora le modifiche arrecate dall’annessione delle nuove province. Quando il Regno di Sardegna si è trasformato in Regno italico, mi sembra che la sua posizione finanziaria sia molto migliorata.’ Per l’importante politico, quindi, l’Italia unita era un Piemonte che si era esteso e che aveva migliorato la propria posizione grazie al contributo dei territori acquisiti. Nelle circostanze che si erano determinate, però, molti degli uomini al potere nel regno subalpino videro anche l’occasione per il proprio arricchimento personale e da questo punto di vista le cose precipitarono dopo la morte di Cavour, avvenuta il 6 giugno 1861.
Il Parlamento, nei limiti dei suoi poteri, tentò più volte di opporsi a questo stato di fatto, che privilegiava un ristretto numero di affaristi, ma danneggiava l’economia nazionale. A questo proposito ricordiamo che, quando nel 1862 venne rilasciata la nuova concessione per l’ampliamento della rete ferroviaria del Sud, l’assemblea dei deputati raccomandò, dopo un esame dei costi e dei benefici, di utilizzare la fabbrica di Pietrarsa per la realizzazione dei materiali, ma chi doveva decidere preferì ricorrere ad altre imprese, ovviamente più vicine al governo. Ricordiamo ancora che sempre il Parlamento nel 1868 istituì una commissione d’inchiesta sul corso forzoso, con il quale era stata stabilita l’inconvertibilità dei biglietti emessi dalla Banca Nazionale e che questa commissione concluse i suoi lavori con una vera e propria condanna del provvedimento, voluto dall’esecutivo e approvato con Regio Decreto (all’epoca il potere legislativo era condiviso dal Parlamento e dalla Monarchia). Nella relazione finale, infatti, si dichiarò che era stato inopportuno (si scrisse che ‘non ve n’era veruno bisogno’) e che il Banco di Napoli ne era stato ingiustificatamente danneggiato. Infine, furono sempre commissioni d’inchiesta dell’organo legislativo a portare alla luce i più importanti scandali della nuova Italia, quello proprio sulla citata concessione per l’ampliamento della rete ferroviaria del Sud e quello della Regìa dei tabacchi.
Nelle puntate precedenti della nostra rubrica, abbiamo visto come il Regno di Sardegna abbia utilizzato gli 80 milioni prelevati dall’erario del Regno delle Due Sicilie per far fronte, almeno in parte, ai propri problemi finanziari. Quel danaro, però, era impegnato e questo significa che nel Sud ci furono opere interrotte o che non vennero iniziate. In particolare rimasero bloccati i lavori per l’ampliamento della rete ferroviaria, che sul versante adriatico erano già stati avviati. Le spese necessarie al funzionamento delle strutture pubbliche, però, dovettero egualmente essere effettuate e questo, insieme agli incredibili sperperi delle amministrazioni provvisorie successive all’Unità, aumentò il debito dello Stato napoletano, che all’atto dell’unificazione finanziaria nel 1862, come sappiamo, raggiunse i 26 milioni delle nuove lire.
I politici piemontesi, però, videro l’Unità anche come un’opportunità per risolvere il grave problema della disoccupazione nei propri territori e nell’amministrazione meridionale, a partire già dalla prima luogotenenza di Farini, venne inserito un grande numero di sudditi del regno sardo, per far posto ai quali venivano contestualmente rimossi i dipendenti in servizio. Il governo di Torino, procurando un’attività retribuita a tutti i propri cittadini, sottrasse anche alimento sia alla cocca, la famigerata e violentissima organizzazione criminale, che oramai teneva quasi in ostaggio la capitale sabauda, sia al brigantaggio, che imperversava nelle campagne del regno del Nord. (Diversamente nel Mezzogiorno, aumentando il numero delle persone senza reddito, si concorreva a incrementare la base, alla quale attingevano le associazioni malavitose. La loro affermazione nell’Italia unita, però, fu determinata in prevalenza da altri fattori, primo fra tutti la vicinanza al nuovo potere). Le testimonianze sulla situazione caotica che seguì all’immissione improvvisa nelle strutture pubbliche del Sud di personale settentrionale al posto di quello duosiciliano sono numerosissime e tra le tante ricordiamo l’intervento (riportato dallo scrittore e storico Carlo Alianello ne ‘La conquista del Sud’, Rusconi, 1972), tenuto il 2 aprile 1861 in Parlamento dai deputati Giuseppe Massari, Paolo Paternostro e Giuseppe Ricciardi, i quali denunciarono ‘il malcontento delle popolazioni mal governate, abbandonate in balia della Provvidenza, vittime di prevaricazioni nei dicasteri e di una pletorica, e incapace burocrazia assunta dai pessimi governi della Dittatura e poi delle Luogotenenze, con grave danno finanziario, politico e morale.’ A proposito in particolare di quanto stava accadendo nella sua città di provenienza, il 15 gennaio 1862 il deputato Filippo Cordova in un intervento alla Camera dichiarò: ‘In Siracusa i sanitari negli ospedali sono il quadruplo del numero degli infermi, mentre in Sicilia gli impiegati sono enormemente moltiplicati e, sotto questo aspetto, era assai migliore il governo borbonico, il quale per la Luogotenenza spendeva novecentomila lire in meno del governo piemontese.’ Gli impiegati rimossi, come è ovvio, perdevano i loro compensi e di conseguenza interi nuclei familiari rimanevano senza mezzi di sostentamento, ma, come vedremo, in quegli anni molte altre ancora furono le cause di disagio sociale, che produssero tutte contemporaneamente i loro effetti, rendendo la situazione drammatica.