Rubrica a cura di Enrico Fagnano: IL MEZZOGIORNO DOPO L’UNITÀ
La situazione finanziaria delle Due Sicile, come abbiamo visto nelle puntate precedenti, era solida e consentiva di chiudere ogni anno il bilancio in pareggio. Tale risultato, però, era conseguito a costo di un impegno continuo e nel Regno ogni uscita veniva accuratamente valutata. Il primo a economizzare praticamente su tutto era lo stesso Ferdinando II, che non fece mancare nulla sia alla prima moglie (Maria Cristina di Savoia, sposata nel 1832 e morta nel 1836), sia alla seconda (Maria Teresa d’Austria, sposata nel 1837), sia ai numerosi figli, ma per il resto era di una parsimonia unica, che divenne proverbiale nell’alta società napoletana dell’epoca. Per sé spendeva poco o nulla, a cominciare dall’abbigliamento, tant’è vero che in pubblico generalmente non indossava gli abiti regali, ovviamente più costosi, ma la sua divisa di ufficiale dell’esercito. Infatti aveva frequentato l’accademia e stava regolarmente percorrendo la carriera militare. Per quanto riguarda, poi, le feste di corte, erano le famiglie più in vista del regno che venivano alternativamente invitate a finanziarle (ovviamente si trattava di inviti ai quali era impossibile sottrarsi) e pertanto non gravavano sulle casse del governo.
(Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie )
Da quanto detto, si comprende perché Ferdinando II seguisse con la massima attenzione i conti pubblici, pretendendo di essere costantemente aggiornato sul loro andamento. I consigli di Stato negli altri regni erano poco più di formalità e i sovrani si limitavano in sostanza a firmare i provvedimenti predisposti dal governo. Nel regno napoletano, invece, erano sedute drammatiche, che si protraevano fino a notte fonda, e i componenti dell’esecutivo erano tenuti a dare conto di tutte le spese affrontate, che non dovevano mai per nessuna ragione superare gli importi previsti. I ministri, che da questi consigli, come riportano le cronache dell’epoca, uscivano distrutti, si vedevano costretti a loro volta ad esercitare un analogo, rigido, controllo sui dirigenti dei loro dicasteri, che di conseguenza dovevano fare altrettanto con i loro sottoposti. In questo modo non solo si evitavano sprechi e uscite superflue, ma si riusciva anche a limitare il fenomeno della corruzione, che nel Regno delle Due Sicilie fu sempre contenuta entro margini accettabili, ovviamente tenendo conto del contesto generale dell’epoca (l’etica non era certo il punto di forza delle classi dirigenti europee dell’Ottocento e a questo proposito basti pensare al congresso di Vienna, che fu un vero e proprio trionfo di tangenti).
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Lo Stato napoletano aveva un’economia solida e tra i dati che lo confermano c’è anche quello relativo alle monete circolanti prima dell’Unità in Italia. Con la legge Piepoli del 24 agosto 1862 ne venne deliberato il ritiro e il cambio con la nuova valuta (questa non fu altro che la lira piemontese, nella quale la denominazione di Regno di Sardegna venne semplicemente modificata in quella di Regno d’Italia, a proposito della piemontesizzazione dell’Italia). A operazioni concluse, circa dieci anni dopo, l’importo complessivo del danaro sostituito risultò di 668 milioni, così suddivisi: Regno delle Due Sicilie 443 milioni, Lombardia 8, ducati di Modena e di Piacenza circa 2, Stato Pontificio (annesso nel 1870) 90, Regno di Sardegna 27, Granducato di Toscana 85 e Veneto (annesso nel 1866) 13. Come si vede, il Regno delle Due Sicilie deteneva circa i 2/3 del circolante totale della penisola, ma il dato acquista ancora più rilievo, se si tiene conto che la maggior parte delle sue monete (addirittura circa il 90%) erano coniate in oro o argento. Questo era un ulteriore sintomo della forza economica dello Stato borbonico, che metteva nelle mani dei propri cittadini danaro per le sue caratteristiche intrinseche facilmente spendibile su qualsiasi mercato estero. Le monete del regno sardo, invece, erano per la quasi totalità di carta e il loro importo complessivo di 27 milioni non corrispondeva a quello del metallo prezioso nelle casse dell’istituto emittente, la Banca Nazionale negli Stati Sardi, che si aggirava nella migliore delle ipotesi sui 9 milioni. Per legge il rapporto, infatti, doveva essere di uno a tre, ma negli ultimi tempi con l’aggravarsi della crisi non era stato più rispettato. Il metallo prezioso detenuto dall’istituto emittente napoletano, il Banco delle Due Sicilie (che dopo l’Unità, come sappiamo, cambiò la sua denominazione in Banco di Napoli), equivaleva invece almeno a 500 milioni, considerando anche le riserve nei depositi.
I dati riportati in questa puntata della nostra rubrica e nelle precedenti ci descrivono, quindi, il Regno delle Due Sicilie come uno stato ricco, ovviamente per i parametri del tempo. Questa ricchezza era concentrata prevalentemente nella capitale, come ci conferma l’enorme quantità dei suoi palazzi nobiliari e delle sue ville, che sono diverse centinaia. Alcuni di questi edifici erano piccole regge, realizzati dagli architetti più importanti presenti a Napoli e decorati dai migliori artisti del tempo. Tra i tanti ricordiamo palazzo Donn’Anna a Posillipo (che Cosimo Fanzago ha cominciato nel 1642 e, come molte sue opere, ha lasciato incompiuto), palazzo D’Avalos (ristrutturato da Mario Gioffredo, l’architetto-ingegnere che tra il 1768 e il 1771 ha costruito l’acciaieria di Mongiana), palazzo Sanfelice alla Sanità (realizzato per se stesso dal noto architetto Ferdinando Sanfelice), palazzo Maddaloni (ristrutturato da Cosimo Fanzago e decorato da Micco Spadaro, Giacomo del Po, Francesco De Mura e Fedele Fischetti, pittore quest’ultimo attivo anche nella Reggia di Caserta) e palazzo Berio (che è stato ristrutturato da Carlo Vanvitelli su progetto del padre, Luigi Vanvitelli, e nei cui giardini era una scultura di Canova, ‘Venere e Adone’, poi venduta al Museo d’Arte di Ginevra). L’elenco sarebbe veramente lungo, ma ci limitiamo a ricordare ancora l’attuale sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, palazzo Serra di Cassano (che è stato ristrutturato da Sanfelice e decorato da Giacinto Diano e che conserva una tela di Mattia Preti, oltre a preziosi bronzi della Fonderia Chiurazzi), palazzo Doria D’Angri (costruito nella seconda metà del Settecento dai due Vanvitelli), con il suo spettacolare salone delle feste affrescato da Fedele Fischetti, e il principesco palazzo Tarsia (costruito da Domenico Antonio Vaccaro), a suo tempo preceduto da parchi e rigogliosi giardini, nei quali trovavano posto fontane e addirittura un piccolo lago.
Nell’Ottocento, quindi, i Napoletani con ampie disponibilità economiche erano piuttosto numerosi e per questo di conseguenza nella capitale del regno era molto vivo l’artigianato, con botteghe di ogni genere che lavoravano per le famiglie più in vista, ma folto era anche il gruppo di pittori e di scultori, impegnati a realizzare le opere commissionate dalla nobiltà. Le sale ottocentesche del Museo di Capodimonte danno un’idea della incredibile quantità di artisti presenti in quegli anni nella città, documentata anche dalle collezioni del Museo di San Martino, del Museo Filangieri e del Banco di Napoli (quest’ultima attualmente ospitata nel monumentale palazzo Colonna di Stigliano in via Toledo).
C’è un elemento in particolare, però, che lascia intendere quale fosse la reale ricchezza dei Napoletani in quel periodo ed è il numero dei teatri, che erano più di venti, con riguardo in modo speciale a quelli per l’opera, all’epoca estremamente costosi, sia per la complessità delle scenografie, sia per gli alti compensi degli artisti, soprattutto delle prime donne, che raggiungevano livelli quasi inimmaginabili. Questi teatri si finanziavano esclusivamente con gli incassi, provenienti dall’affitto annuale dei palchi, dagli ingressi e per la maggior parte dal gioco d’azzardo, che si praticava durante tutta la durata delle rappresentazioni negli spazi interni dei loggioni, adibiti a bische per l’alta società. Come è evidente, quindi, si reggevano sulla disponibilità economica dei benestanti e la capitale borbonica, insieme a Venezia, era l’unica città in Europa che poteva permettersene ben quattro. (Per quanto riguarda il capoluogo lagunare, però, bisogna ricordare che all’epoca i festeggiamenti per il carnevale duravano molti mesi, attirando da tutto il continente persone che volevano divertirsi, ma anche assistere a nuovi spettacoli e questo ne faceva la vera capitale di ogni genere di intrattenimento). I lirici a Napoli erano il San Carlo (costruito in soli nove mesi nel 1737 da Giovanni Antonio Medrano), il Fiorentini (nato dalla ristrutturazione di un precedente teatro di prosa), il Fondo (l’attuale Mercadante, costruito da Francesco Securo nel 1778) e il Nuovo (costruito nel 1723 da Domenico Antonio Vaccaro, che nei pressi aveva anche il suo palazzo, con uno spettacolare portale barocco, tuttora esistente). Svolgevano la loro attività durante l’intera stagione e restavano chiusi solo nella settimana di Passione e nel mese di agosto. Quindi in sostanza ogni sera c’erano contemporaneamente quattro spettacoli, ai quali assisteva un pubblico numeroso e questo significa che nella città di Ferdinando II erano in molti a potersi permettere il lusso di frequentare uno di questi teatri.
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Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie