IL MEZZOGIORNO DOPO L’UNITÀ: Rubrica a cura di Enrico Fagnano (CLICCA QUI PER LA PRIMA PARTE)
Nelle città del vecchio Regno delle Due Sicilie la situazione era diventata tragica, ma nelle campagne fu ancora peggio. Con decreto del primo gennaio 1861 il luogotenente Eugenio di Carignano dispose che i fondi demaniali fossero sottratti agli usi civici, ai quali in sostanza, come sappiamo, fino ad allora erano stati destinati, e fossero frazionati in lotti da assegnarsi in cambio del pagamento di un canone. In questo modo si intendeva fornire terreni ai coltivatori, che non ne possedevano, ma principalmente si intendeva creare una rendita per lo Stato su suoli che in quel momento non rendevano nulla, perché liberamente sfruttati dai braccianti in difficoltà. Il provvedimento ebbe conseguenze molto gravi, perché nelle zone rurali tolse a un considerevole numero di Meridionali la possibilità di sopravvivere, riducendoli, come è facile immaginare, in uno stato di assoluta miseria. Ebbe, però, anche un altro effetto imprevisto, la concentrazione delle terre nelle mani di quelli che già erano i maggiori proprietari. Gli affittuari dei lotti, infatti, dopo poco non riuscivano più a gestirli, sia per l’alto importo dei canoni, sia perché i nuovi tributi erano insostenibili al Sud, come avevano osservato (lo abbiamo visto negli articoli precedenti) anche il sottoprefetto faentino Panirossi e l’ufficiale piemontese Bianco di Saint Joroz. Per questo in breve furono costretti a cederli e gli unici che avevano la forza economica per rilevarli erano i latifondisti. Nel 1862, però, a fronte delle crescenti esigenze finanziarie della nuova Italia, il governo decise di ottenere ricavi più consistenti dal proprio patrimonio e per questo fu deliberata la vendita dei beni demaniali (definiti dalla legge 793 del 21 agosto come i ‘beni urbani e rurali dello Stato non destinati a uso pubblico o richiesti per il pubblico servizio’), costituiti in grande prevalenza dai suoli di proprietà nazionale, presenti esclusivamente nell’ex regno napoletano, se si fa eccezione per alcuni appezzamenti di poco conto in Maremma e in Sardegna. L’operazione, che durò diversi anni, fruttò poco più di 300 milioni, in sostanza provenienti, come è ovvio, esclusivamente dal Mezzogiorno. I vecchi e i nuovi baroni, quindi, con i provvedimenti successivi all’Unità potettero espandersi senza più vincoli, acquisendo liberamente terreni pubblici, a differenza di quanto avveniva con i Borbone, ma le loro tenute si accrebbero anche ai danni dei piccoli possidenti, i quali non riuscivano a fare fronte al nuovo regime fiscale e furono costretti a disfarsi, generalmente a prezzi stracciati, dei propri modesti fondi.
Come abbiamo già detto, con decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861 era stata estesa ai territori conquistati anche la Legge Cavour-Rattazzi del 28 maggio 1855 sulla soppressione degli enti ecclesiastici, ai quali, quindi, il governo cominciò ad espropriare gli immobili e le proprietà rurali, ma anche su molte di queste ultime era consentito lo sfruttamento comunitario e di conseguenza numerosi altri braccianti rimasero senza mezzi per la loro sopravvivenza.
Con la sottrazione agli usi civici dei terreni demaniali (disposta nel gennaio 1861) e dei terreni della Chiesa (iniziata il febbraio successivo) la miseria nelle campagne del Sud raggiunse livelli intollerabili e quindi non c’è da stupirsi se uomini condannati alla fame si siano armati contro uno Stato, che vedevano solamente come il loro oppressore, andando ad alimentare la rivolta popolare. Il fenomeno del brigantaggio presto assunse proporzioni oggi inimmaginabili e finì per coinvolgere tutte le regioni dell’ex regno.
In una situazione come quella che si era venuta a determinare, i Monti frumentari e i Monti pecuniari stentavano a sopravvivere e poco per volta chiusero tutti, tanto che già nel 1865 non ne esisteva più neanche uno. Nel Mezzogiorno agricolo, quindi, riprese vigore il fenomeno dello strozzinaggio, che gli istituti borbonici avevano fortemente limitato, e così alla miseria si aggiunse altra miseria. In breve, però, venne meno tutto il sistema creato dal governo delle Due Sicilie per sostenere i più bisognosi nelle campagne e infatti con l’Unità furono soppresse le distribuzioni gratuite di grano, fino a quel momento previste nei periodi di carestia, mentre più tardi, esattamente il primo gennaio 1869, venne reintrodotta anche la tassa sul macinato.
La confisca dei beni religiosi durò cinque anni, anche perché aumentavano continuamente le categorie degli immobili e dei terreni che vi erano assoggettati e alla fine ne rimasero escluse solo le dotazioni delle parrocchie e le case canoniche, cioè attigue alle chiese e abitate dai loro sacerdoti, oltre a un numero assai ridotto di strutture particolarmente importanti per il culto, come la Certosa di Pavia e le abbazie di Montecassino, di Cava e di San Martino delle Scale. Gli enti cattolici furono privati del riconoscimento giuridico dal regio decreto del 7 luglio 1866 e così le proprietà confiscate potettero essere incamerate nel demanio statale, mentre la loro vendita venne deliberata con la legge del 15 agosto 1867 sull’eversione dell’asse ecclesiastico. Dal provvedimento furono interessati nell’intera Italia terreni per complessivi 3.000.000 di ettari, ma di questi ben 2.500.000 erano nel Mezzogiorno, del quale rappresentavano addirittura 1/4 di tutta l’area coltivabile. Nel 1874 il governo istituì una commissione per stimare le entrate realizzate fino a quel momento, che furono calcolate in circa 480 milioni. Le operazioni, però, continuarono, per concludersi definitivamente poco dopo il 1910 e la cifra finale incassata dallo stato fu di circa 620 milioni, dei quali almeno 520 provenienti dal Sud. La liquidazione del patrimonio immobiliare religioso in parte fu gestita direttamente dall’amministrazione pubblica e in parte fu affidata alla torinese Società Generale di Credito Mobiliare Italiano. Questo era uno degli istituti attraverso i quali la principale banca piemontese, la Banca Nazionale negli Stati Sardi (dopo l’Unità diventata la Banca Nazionale nel Regno d’Italia), concedeva i prestiti agli imprenditori e quindi non solo gli importi ricavati dalla alienazione di beni prevalentemente meridionali andarono a finanziare lo sviluppo industriale del Nord, nonché interventi edilizi nelle sue maggiori città, ma fu anche a favore delle industrie settentrionali che finirono le commissioni incassate.
Gli immobili della Chiesa o furono acquistati dagli stessi ordini monastici che li abitavano (in questo modo diversi conventi potettero continuare ad esistere e sono in sostanza quelli arrivati fino ai giorni nostri), oppure furono acquistati da privati, che li ristrutturarono per vari usi. Per quanto riguarda i terreni, furono suddivisi in lotti piuttosto estesi, costituiti di ben 11 ettari, e quindi vennero direttamente destinati ad acquirenti con una certa disponibilità, che furono o i soliti latifondisti, oppure i nuovi borghesi. I braccianti meridionali in quel momento non erano più, neanche formalmente, nei programmi del governo.